MARIO DEL TREPPO, Federigo Melis, storico

da Studi in memoria di Federigo Melis, I, Napoli 1978 (Giannini ed.)

5. Filoni di ricerca e componenti di un modello economico

I diversi temi della storiografia melisiana, già compiutamente delineati nei suoi lavori degli anni datiniani e fin d'allora tutti insieme compresenti, si snodano in filoni di ricerca continui e paralleli lungo l'intero arco della sua attività. Nessuno di essi viene abbandonato, neanche momentaneamente, ma tutti sono oggetto di un approfondimento costante: l'operatore economico, l'azienda, la contabilità, i trasporti, l'industria, la banca e, anche se assai meno insistito degli altri, ma pur sempre presente, l'agricoltura. Non è questa l'enunciazione di una possibile serie di oggetti di studio - né lo fu per Melis - e nemmeno la schematizzazione attraverso cui dovesse necessariamente configurarsi una analisi di storia economica esauriente e completa. Anche se mai esplicitata e teorizzata, una costruziane teorica è certamente sottesa alla sua opera di ricerca e di scavo. Quei temi, infatti, che una progressiva focalizzazione consente di individuare nelle loro connessioni, oltre che nel loro svolgimento, non sono solo le parti, non giustapposte, ma articolate, di un discorso; diventano anche le componenti dinamiche di quello che potremmo definire il modello, o schema esplicativo, del capitalismo medioevale in un periodo dato ed in un'area geografica determinata l'area e il periodo studiati appunto dal Melis. Basta enuclearli dal contesto e disporli in un ordine logico, cosa non troppo difficile né arbitraria dal momento che Melis stesso analizza il fenomeno non sotto tutti i suoi aspetti, ma attraverso gli aspetti significativi e determinanti la reciproca connessione. L'operatore, l'azienda, la contabilità non sono atomisticamente isolabili, e così neppure i campi operativi in cui il soggetto economico si applica nel modo in cui si applica; il concetto - sombartianamente inteso - di sistema è a Melis tanto famigliare, e così presente, da suggerirgli perfino il titolo scherzoso di un saggio - Come bere il vino nel sistema dei cibi - che è un vero e proprio manuale per l'educazione del perfetto gourmet.

Le matrici di questa costruzione teorica si lasciano facilmente ricondurre all'opera di W. Sombart e di M. Weber. Dall'imponente apparato concettuale dell'autore di Wirtschaft und Gesellschaft Melis stralcia tutta la parte che riguarda la teorizzazione dell'agire economico, la razionalità del calcolo monetario, con la sua forma particolare di calcolo del capitale, e la distinzione contabile tra la "casa" e l'"impresa", nonché il più generale concetto di capitalismo, inteso come forma di economia razionalmente orientata verso un profitto continuativo, sulla base di una previsione di mercato 141. Rinuncia, invece, ed astrae completamente dal considerare le altre implicazioni - politiche, scientifiche, religiose ecc. -, pur esse organicamente presenti nel complesso discorso sociologico del Weber, e convergenti tutte nel processo di razionalizzazione che attraversa la vita moderna. Quanto al Sombart, Melis gli è debitore, oltre che di alcuni concetti fondamentali, della stessa tematizzazione da cui abbiamo preso le mosse, e che è quella della seconda edizione di Der moderne Kapitalismus.

Eppure la sua originalità è fuor di dubbio. Essa consiste nella fortissima caratterizzazione e individuazione storica, per cui elementi concettuali dilatabili nel tempo, quali la razionalità, l'imprenditorialità, il profitto ecc., sussunti da Weber come da Sombart, con intento classificatorio, quali indicatori di una morfologia culturale capitalistica, diventano, in Melis, le concretissime componenti di una struttura economica storicamente delimitata, quella della Toscana basso-medievale. Questo modo di procedere è ben visibile nel suo rapporto con Sombart, dal quale trae un concetto essenziale per la sua analisi, l'equazione tra capitalismo e partita doppia. "Lo storico germanico - annota Melis - aveva impostato quello che io definisco il binomio partita doppia - impresa capitalistica alle origini (...). Senonché egli, a corto di documentazione, d i l u ì t r o p p o [la sottolineatura è mia] il processo di affermazione del metodo e non fu preciso nella localizzazione di tempo e di luogo; 142. Melis non solo porta, al riguardo, i contributi storici e documentari che abbiamo visto, ma, affermando il valore creativo, progressivo ed esemplare di quel binomio, solo per la fase aurorale del capitalismo, cioè alle origini (dopo, la scrittura doppia sarà normale routine, riscontrabile anche nei conti dell'ortolano), egli svela tutta la pregnanza di quella espressione sombartiana, "in principio era il conto; 143, che si addice particolarmente bene al suo discorso: la nuova forma dell'azienda toscana spersonalizzata si incarnò veramente nel conto, cioè nella scrittura doppia, che è originaria, vale a dire consustanziale al capitalismo, non generativa di esso né da esso creata, come, con manifesta incertezza, si esprime invece il Sombart 144.

La storicizzazione del Melis è spinta fino alla individuazione del salto qualitativo che rompe la tenace viscosità della continuità storica. Non è questo il solo caso, né il solo esempio dell'accordo, sul piano problematico-concettuale, e del disaccordo, su quello storico-fattuale, tra Melis e Sombart. La polemica anti-sombartiana del Sapori aveva avuto il carattere di una confutazione, magari anche di un rovesciamento, di singole e specifiche tesi relative al capitalismo medievale italiano (l'elementarità del calcolo, la non specializzazione delle operazioni commerciali, l'esiguità dei valori quantitativi, il carattere artigianale del commercio medievale ecc.) 145. In Melis invece la critica degli assunti sombartiani è subordinata alla sua convinta adesione ai principi interpretativi dello studioso tedesco, e scaturisce dalla piena verificazione storica di essi. Fu Schumpeter ad osservare, in un suggestivo confronto tra Sombart e Marx, come "Sombart semina punti di vista e li abbandona al loro destino. A Marx interessano le risposte, a Sombart gli interrogativi (...). Sombart esperimenta punti di vista e formulazioni il cui valore - e scopo - spesso consiste solo nello stimolare contro- reazioni ...; 146. Credo che pochi studiosi hanno fatto proprie - come Melis - le pagine piene di interrogativi di Sombart per dare ad esse le risposte che chiedevano 147.

Venendo alla delineazione del supposto modello melisiano, converrà partire dall'operatore: egli non è l'homo oeconomicus, animato dallo spirito capitalistico inteso come illimitata aspirazione al guadagno. Ogni riduzione dell'agire economico ad una motivazione, o disposizione, psicologica, di tipo pirenniano o del primo Sombart (ma in Sombart questa è una tentazione ricorrente) 148, viene esclusa; né basta a caratterizzare l'operatore la razionalità che pur informa il suo agire 149. L'ansia del guadagno perde tutto il suo originario contenuto psicologico e soggettivo per diventare la molla interna al nuovo meccanismo, l'impresa, ossia la sua propria forma. Creatore in origine dell'azienda, a un determinato momento dello sviluppo di essa l'operatore diventa il prodotto dell'azienda stessa, o meglio uno dei risultati del suo sdoppiamento, colui che deve avere per la quota di capitale versato e i profitti conseguiti, e che deve dare per i disavanzi della ragione sociale. Il vero soggetto economico è dunque l'azienda (Geschäft), unità astratta, forma dell'impresa capitalistica, cui Melis rivolge la sua attenzione dopo un profondo mutamento di prospettiva rispetto a quanti avevano costantemente guardato all'imprenditore-demiurgo, agli "italici mercatores": anche questo è un suo debito verso Sombart. "I soggetti economici sono gli uomini: non gli uomini in sé e per sé, ma combinati con la ricchezza, in modo da poter agire su di essa, appunto, ai fini di produzione, di circolazione, di distribuzione e di consumo della medesima. Questi uomini (...) congegnano così in maniera diversa le loro energie personali con le energie reali, con le quali devono immedesimarsi; 150. L'azienda finisce per acquistare un'autonomia che sembra "avvenuta nella maggior parte dei casi - come dice Sombart (e l'asserzione si attaglia al discorso di Melis meglio che al suo proprio) - senza la coscienza e la volontà degli uomini d'affari; 151.

Melis, come nessuno aveva fatto prima di lui, spinge l'analisi all'interno dell'azienda, configurando sotto la denominazione di storia interna tutta una serie di temi nuovissimi, dall'organizzazione dell'impresa e le sue ramificazioni fino al reclutamento del personale, le sue mansioni, la sua carriera 152. A dir il vero il campo era stato aperto dal Sapori 153, che aveva anche introdotto il termine e il concetto di storia interna, non senza però qualche grave incertezza 154.

Una volta messo in moto il meccanismo, c'è una logica alla base delle sue trasformazioni, e si va dall'azienda indivisa, a quella divisa in filiali, al sistema di aziende (una pluralità di entità giuridiche ma un solo organismo economico), alla compagnia per via di accomandita e, finalmente, ma non prima della fine del XVI secolo, alla società in accomandita (semplice) 155. Su molti punti di questa evoluzione Melis ha portato contributi decisivi, individuando istituti commerciali o anticipandone l'apparizione nel tempo, spesso in polemica con altri studiosi 156.

Della contabilità si è detto; essa non è una geniale invenzione, ma un elemento intrinseco al funzionamento dell'azienda e alla razionale condotta dell'operatore. Lo stesso tipo di connessione si riscontra nella "cultura", fattore fondamentale nel meccanismo del sistema. La cultura del mercante è, in questo tipo di analisi, sostitutiva di quell'altro elemento soggettivo che da taluni si cercava di porre a fondamento dell'agire economico, la molla psicologica. Ma, per determinarne il peso e l'incidenza, non è sufficiente andare alla ricerca dei contenuti letterari e spirituali di essa, ancorché capaci di plasmare un nuovo modo di sentire e di produrre conseguentemente effetti anche sul piano economico. Melis, poco incline verso le tematiche della mentalità, sensibilità e affini, avrebbe considerato elusiva, o avventurosa, un'impostazione del genere. Né basta verificare negli operatori il sicuro possesso degli strumenti del leggere e dello scrivere, o l'esattezza materiale del calcolo: che sono i termini - e i limiti - della polemica di Sapori con Sombart 157. Né infine è possibile valutare la cultura del mercante dal tipo di insegnamento che, conformemente all'ordinamento scolastico della sua città, ha potuto seguire: da questo punto di vista si erano posti, com'è noto, nei loro studi pionieristici Pirenne, Fanfani, Sapori. Tra gli studiosi che l'hanno preceduto, Melis è più vicino al de Roover 158, convinto come lui che la cultura dell'operatore economico vada collegata con la sua preparazione professionale e con gli strumenti conoscitivi e operativi di questa, in primo luogo la contabilità; e i libri contabili ed il carteggio mercantile sono ancora una volta le fonti più preziose e non surrogabili per questa indagine. Più particolarmente Melis ritiene di dover individuare la cultura del mercante là dove le azioni economiche vengono per la prima volta innalzate alla dignità di studio.

La cultura del mercante dei secoli XIV-XV sembra essere dunque una specificazione propria del nuovo tipo di impresa, del nuovo soggetto economico, quell'azienda che impone e consente all'imprendiore di raccogliersi esclusivamente nella direzione e nello studio dei fenomeni. Essa è conoscenza sistematica e razionale, know how - come ha detto efficacemente L. de Rosa 159 -, informazione. Parallela all'accumulazione del capitale, ma in fondo consustanziale ad essa, è l'accumulazione delle conoscenze, che in questi secoli noi vediamo verificarsi dovunque operano i mercanti fiorentini: e i viaggi transoceanici di Da Verazzano, Colombo, Vespucci, e le scoperte geografiche saranno appunto il frutto di questa duplice accumulazione 160.

Nelle grandi aziende - e Melis ribadisce, solo in esse - il dirigente puro, che ha completamente abbandonato la pratica degli affari, si dedica interamente allo studio 161, accentrando su di sé, sempre più doviziosamente i mezzi che glielo consentono, ossia estendendo le maglie della corrispondenza, passando dalla contabilità di sintesi (bilanci, conto profitti e perdite, conto di capitale) a quella di analisi, per sollecitarla a continui perfezionamenti, che possano fornirgli più precisi dati sulle situazioni locali di un universo in crescente dilatazione e sulle innumeri persone che con l'azienda vengono in contatto. Attraverso l'informazione il grande mercante modella plasticamente lo spazio in cui opera 162.

Sul fondamento e lo sviluppo di questa cultura, in cui il lato soggettivo-spirituale è sempre strettamente correlato a quello organizzativo-strutturale, emerge un elemento nuovo, la fiducia. Concepita non tanto come valore in sé, ma come mezzo per ottenere il credito finanziario (e in questo essa è conforme all'"onestà" del capitalista weberiano), la fiducia si palesa come virtù socialmente utile (in senso aristotelico). Essa diventa l'elemento etico e comportamentale determinante, nella prassi dei mercanti; capace di sostituire valori antichi, subentra, nella coscienza collettiva, alla fides publica del notaio.

Il carattere sistematico e organico della costruzione di Melis si manifesta esemplarmente nella congruità che egli ha potuto rilevare tra il tipo dell'operatore economico e il tipo e la qualità delle azioni da lui esplicate nei settori del suo intervento. Posto che il campo elettivo di questo operatore e della sua impresa è naturalmente la mercatura, cioè la distribuzione, si tratta di vedere se, e fino a qual punto, questa azione si dispiegò negli altri campi, agricoltura, banca, industria; e ove si dimostri questo intervento essere stato decisivo e determinante nello sviluppo della società medievale o rinascimentale, ogni riserva sul carattere settoriale, parziale e limitato della ricostruzione e interpretazione melisiana dovrebbe cadere. Subordinato invece, o comunque diverso, è il discorso sul modo in cui si svolse questa azione, se essa cioè produsse, o no, conflitti sociali tra gruppi diversamente orientati, o contrapposti.

Il rapporto distribuzione-produzione-consumo è certamente presente in Melis, ma è solo e sempre alla distribuzione che si devono ricondurre - secondo lui - le impressionanti novità che, con conseguenze di enorme portata, si verificarono in quel tempo.

L'imprenditore estende il suo controllo dalla produzione al consumo, domina l'atto del trasporto, ma, potendo anche concentrarsi nello studio, egli elabora strumenti conoscitivi e operativi ormidabili, come la contabilità analitica dei costi: con questo strumento poté incidere nella realtà economica come non sarebbe stato possibile in nessun altro modo, cioè partendo dalla produzione, o dal consumo, e affidandone l'iniziativa alle categorie dei produttori o dei consumatori. Di tale portata fu la "ristrutturazione dei noli", onde le tariffe dei trasporti marittimi, dalla loro originaria condizione di estrema rigidità, vennero rese elastiche e variate, e il più possibile aderenti al valore dei beni 163.

L'imprenditore, o, che è lo stesso, la grande azienda mercantile, si trova a dover ripianare le lacune finanziarie prodottesi durante la gestione, ché, quanto all'investimento iniziale o agli ampliamenti successivi, non c'era problema, essendo entrato da tempo nella consuetudine mercantile il ricorso ai prestiti saltuari o a lungo termine. Ed ecco allora che, partendo dalla domanda, si mette in moto un meccanismo che nessuna offerta di per sé sarebbe stata in grado di azionare; le giacenze di ricchezza inutilizzate nei depositi bancari vengono immesse dentro il circuito produttivo, il danaro proprio o altrui non resta un solo momento inoperoso, nasce il credito di esercizio e le forme del prelievo si fanno sempre più agili e disinvolte [attraverso il giro-conto, lo chèque, la girata fuori dal titolo, la girata cambiaria) 164.

Siamo alla banca che Melis qualifica moderna, quella che sostiene ed asseconda la gestione delle aziende, dal punto di vista finanziario, con una attività continuativa; non quella considerata tale per l'erogazione di prestiti a principi e sovrani, fatti a fondo perduto, con lo scopo di conquistare posizioni politiche, introdursi in aree difficili, ottenere esenzioni fiscali, che è si, weberianamente, attività acquisitiva, ma di un capitalismo orientato in senso politico. Quando il credito di esercizio si effettua anche sullo "scoperto", cosa che è resa possibile dal diffondersi della fiducia, ed avviene per il tramite dell'ordine scritto, allora l'evoluzione della banca è pressoché compiuta 165.

Così, da una parte, venivano frazionati i noli e, più in generale, i costi, in conformità con la varietà delle merci, dall'altra, il credito, che prima ci si procrava per un complesso di operazioni, ora veniva frazionato e modellato sulle operazioni singole, di modo che ciascuna di esse conseguisse la sua più piena autonomia finanziaria.

Ma nell'affascinante vicenda dei beni e della loro circolazione, gli effetti dell'atto di trasporto non si localizzano nel segmento mercantile: essi ricadono sia sull'antecedente produzione, che sul susseguente atto del consumo. Nel momento in cui il grande mercante rompe l'assoluta, tradizionalistica, aderenza di produzione e consumo, per cui, dovunque, ci si sforzava di produrre tutto, o quasi, il necessario nelle vicinanze degli abitati, egli mette in moto un processo di sviluppo nell'agricoltura medesima, dove si verifica un rigoroso adeguamento delle colture alle attitudini dei terreni (con il conseguente abbandono di quelli non atti), la specializzazione e la selezione delle colture (con la conseguente differenziazione regionale), l'incremento dell'allevamento e della produzione, specialmente olearia e viti-vinicola, l'immissione delle derrate agricole più povere (vino, olio, riso ecc.) e dei prodotti agricoli fino allora esclusi dalla circolazione (frutta) nel commercio di massa. Più particolarmente, il mercante colto studia le caratteristiche dei terreni, conferisce una "personalità vitivinicola" a località produttive che non l'avevano e che difficilmente l'avrebbero conseguita per iniziativa di altri, investe nell'acquisto di terre una porzione dei suoi profitti. Non c'e "corsa alla terra", o ritorno alla terra quale bene-rifugio, riparo per una imprenditorialità in crisi 166. Dalla funzione statica di garanzia reale - resa ormai superflua dal consolidarsi della fiducia - e di reputazione personale, l'investimento fondiario passa a significare, capitalisticamente, acquisizione di una nuova fonte di produzione, accanto al capitale mobiliare, da parte di chi è in grado di valorizzarla; e così il quadro delle potenzialità economiche si avvia alla sua integrazione.

Ma è soprattutto nel rapporto tra la mercatura e l'industria che Melis mette in evidenza tutte le peculiarità del sistema produttivo da lui studiato. Anche qui - come nell'agricoltura - il mercante rompe la stretta e originaria aderenza della produzione (artigianale) al consumo, ed inserisce tra i due momenti il segmento della circolazione, con il risultato che (prescindendo dall'ovvia e naturale ricerca del profitto) egli non viene a svolgere una funzione meramente parassitaria, bensì giunge a realizzare una organizzazione economica assolutamente nuova, quella che Melis definisce l'economia dei grandi spazi. In seno all'impresa, che resta fondamentalmente mercantile-bancaria, il mercante promuove, prima un "esercizio" industriale, successivamente dà ad esso una configurazione più netta e indipendente creando l'azienda autonoma dell'"arte della lana", o dell'"arte della tinta", dentro il sistema di aziende dal quale si è venuta anche enucleando un'azienda bancaria. Tuttavia questo intervento resta tipicamente mercantile, cioè organizzativo, in tutto simile a quello da lui operato nel campo della navigazione: un'azione dall'alto, che non comporta il diretto coinvolgimento del mercante nella produzione manifatturiera con il completo assorbimento di questa. Ciò che soprattutto preme al capitalista-mercante e l'incorporamento nella sua impresa dello specialista tecnico- laniero da preporre alla direzione di una azienda di specializzazione industriale che è subalterna. Queste aziende dell'arte della lana, o della tinta, restano contenute in dimensioni assai modeste. Secondo il modello della fabbrica decentrata e largamente disseminata, la quasi totalità delle operazioni si svolgeva all'esterno dell'azienda, in centri operativi autonomi sotto il profilo tecnico ed economico. Nella bottega avevano sede soltanto le operazioni più semplici, quelle che richiedevano il concorso di impianti modestissimi (tutt'al più un graticcio per manipolare il fiocco, una forbice per divettare la lana, un pettine per pettinarla), ed esse erano espletate da pochissimi lavoranti, di provenienza esterna, retribuiti piuttosto a compito che a cottimo 167. "Ma quando le operazioni si fanno complicate, o quando le forze di lavoro non intendono abbandonare il loro domicilio, allora né uomini, né cose, né accessori si affacciano mai alla bottega 168. I soli remunerati a tempo - e quindi salariati - erano coloro che svolgevano una mansione apparentemente umile e modesta, la quale invece era eminentemente caratteristica di queste aziende: l'attuazione dei collegamenti tra la bottega e i centri operativi esterni, dove gli "stamaioli" e i "lanini" andavano a consegnare, e poi a ritirare, il semi-lavorato, permettendo così lo svolgimento delle diverse operazioni e l'unificazione di esse. Trattandosi di una attività che l'azienda doveva compiere tempestivamente rispetto alle possibilità di lavoro, questo personale non poteva essere che un personale fisso. Così Melis nel suo ultimo, postumo, lavoro sull'argomento (la relazione presentata nel 1970 alla seconda settimana di studi pratese); nel quale poteva non solo ribadire la propria tesi sulla irrilevanza del salariato nell'industria toscana, che aveva dato luogo a una dura polemica con lo storico marxista Victor Rutenburg 169, ma addirittura radicalizzarla; e questo, contro le sue stesse iniziali propensioni interpretative, in virtù soltanto di un lavoro di ricerca documentaria mai dismessa ma sempre meglio approfondita 170.

Aziende industriali, quindi, che con il loro sviluppo non hanno mai determinato la completa sottomissione del lavoratore, che non hanno prodotto un proletariato urbano, ma si sono irradiate con un movimento di espansione crescente, nelle campagne, dalle aree più accessibili della pianura alle più lontane vallate appenniniche, per raggiungere il lavorante-contadino nella sua casa 171.

Questa ipotesi, di una produzione, starei per dire, senza alienazione, che emerge con forza dal discorso di Melis, sostenuta da una documentazione eloquente, ma non senza un sottaciuto compiacimento ideologico, potrà forse irritare l'arcigno custode del verbo marxiano, ma bisogna pur convenire che il modo di produzione della transizione e l'accumulazione originaria sono concetti ancora tutti da verificare sul piano della storia-realtà, e, anche su quello metodologico, più di impaccio che di utilità 172. D'altra parte, non c'è motivo di abbandonare pregiudizialmente la direzione indicata da Melis, anche se al fondo di essa non si dovesse propriamente trovare il salariato e l'alienazione 173.

Per quanto ogni discorso sulla decadenza, così come ogni confutazione di essa, comporti alcunché di fastidiosamente moralistico, cui non è facile sottrarsi, converrà seguire Melis e le sue indicazioni sui progressi dei secoli XIV-XV che sono difficilmente contestabili, almeno per Firenze e la Toscana 174: sotto le molteplici spinte imposte dai grandi imprenditori si ebbe, con l'incremento della circolazione delle merci e degli uomini 175, un aumento dei consumi individuali e un miglioramento sostanziale delle condizioni materiali di vita; perfino il ricorso alle cure idroterapiche e la frequenza delle terme assunse dimensioni, in certo senso, di massa 176.

Certo di là da quanto è stato dimostrato e documentato da Melis, e su cui non corre dubbio, molte cose restano ancora da verificare e soprattutto da quantificare, onde evitare l'impressione che ad una leggenda negra dei secoli XIV-XV se ne voglia sostituire una dorata, con un procedimento di rovesciamento dei giudizi, per il gusto di andar controcorrente, cui gli storici economici di questo periodo sembrano volerci abituare. Le acquisizioni di Melis non dovranno comunque andar perdute.

Ma il problema che qui vogliamo toccare è un altro, e riguarda naturalmente la storiografia di Federigo Melis. Benché nei suoi lavori di sintesi 177 egli abbia delineato uno schema di relazioni tra i diversi fenomeni studiati, nei termini stessi da noi sussunti per definire le componenti del suo "modello", dubito fortemente che Melis si riconoscerebbe in toto in questa interpretazione, nella quale abbiamo voluto sottolineare (ai fini di una indicazione di metodo che sia più rispondente alle esigenze dell'attuale ricerca, peraltro da lui stesso dischiusa) le connessioni obiettive e gli aspetti intersoggettivi della complessa fenomenologia economica di quei secoli; così facendo abbiamo privilegiato la sua stessa impostazione, ma quella iniziale dei lavori più antichi, come la Storia della Ragioneria.

Orbene, negli ultimi suoi scritti invece, appare sempre più chiaro e netto il rifiuto di ogni impostazione che, per intenderci, definirei di tipo strutturale, a beneficio di una visione fortemente soggettivistica, con la tendenza a ricondurre ogni modificazione e innovazione che si verifichi nell'assetto delle strutture e nell'organizzazione delle aziende, alla eccezionale personalità di un operatore economico concepito in chiave umanistica e idealistica. Questa sua affermazione è sintomatica: "Perché simili compagini [cioè le aziende] - dai meccanismi delicati e complicati - potessero prosperare, occorrevano uomini vigorosi (i quali quando vennero a mancare, aprirono la decadenza alle loro aziende, come all'intero tessuto economico del Paese); 178. Guardando a siffatti artefici dell'economia rinascimentale, e al loro vigore intellettuale, vien fatto di pensare a quegli altri grandi, loro contemporanei, che con pari vigore innalzarono i monumenti dell'arte e della poesia, e dei quali il Boccaccio così dava l'annuncio: "aevo nostro ampliores a coelo venere viri... quibus cum sint ingentes animi, totis viribus pressam (la poesia) relevare et ab exilio in pristinas revocare sedes mens est ...; 179.

Via via che l'interesse di Melis si sposta sull'uomo e vi si concentra, egli lascia cadere anche quel concetto e quel termine di capitalismo da cui pur era partito, quasi che, comportano esso l'esistenza oggettiva e condizionante di una struttura e di un sistema, ne venga pregiudizio ad una impostazione tutta incentrata sull'iniziativa e la libertà dell'individuo creatore. Nella Storia della Ragioneria, che è del 1950, il termine capitalismo ricorre frequentemente; nel 1953, riprendendo il suo intervento al convegno internazionale di studi sul Rinascimento dell'anno prima, Melis significativamente parlava di sviluppo del binomio sombartiano "Capitalismo - Partita Doppia" alle origini 180. Negli Aspetti della vita economica medievale, del 1962, e via via nei successivi studi di quegli anni, sul termine astratto e collettivo di capitalismo prevale quello più concreto, ma circoscritto, di capitalista, con cui Melis qualifica l'operatore e, più frequentemente e senza titubanza, l'impresa. Ma nell'ultimo suo lavoro sull'argomento, Consideration of some aspects of the rise of capitalist enterprise, del 1972, egli abbandona, non senza una certa ostentazione, tutti quei termini, si dissocia dalle responsabilità di quanti li avevano usati in passato (compreso il suo Sombart) e quasi sfida il lettore a definire altrimenti che con l'aggettivo "nuovo" l'economia, le tecniche, la mentalità di quell'epoca: un aggettivo solo apparentemente vago e per lui invece estremamente ricco di significato 181. Naturalmente qui non si vuol criticare l'abbandono di una astrazione - capitalismo - per giunta carica di anacronismi (e che noi del resto adoperiamo in mancanza di meglio), abbandono cui Melis perviene in virtù di una ricerca concretissima, quanto indicare la particolare angolatura prospettica che lo determina.

Al centro del sistema economico si erge sempre più - solitario e dominatore - l'uomo. Dice Melis 182: "Un gruppo esiguo di uomini riusciva a dominare dal vertice complessi aziendali considerevoli, che a loro volta influivano sulle azioni di numerosi altri organismi medi e minori. Se teniamo presente che in tale ragione proprietaria, a sua volta, vi è un "maggiore", la posizione di dominio si accentra in un solo uomo [p. 155]. Egli è il vero dominatore, in questo ambito, e con ampia possibilità di dilagare in qualsiasi altra sfera, tra cui quella - che solitamente più ci impressiona - del potere politico [p. 149];. Questo dominatore è il grande mercante, quello che pensa e opera in grande, che plasma le nuove forme dell'economia, così come l'artista fa con la propria opera. Siamo all'economia-opera d'arte. La predilezione che Melis mostra per l'aggettivo grande, con cui qualifica anche gli aspetti puramente quantitativi di quella economia - le dimensioni delle aziende, il raggio della loro azione, il grado di investimento della ricchezza, ecc., quegli elementi che solo a partire da certi livelli quantitativi rendevano possibili le innovazioni - è indicativa: esso comporta una indubbia qualificazione morale che, implicita nella "grandezza" del mercante, si riverbera sulle sue creature.

In questa progressiva "reductio" del collettivo, del sociale, dello strutturale all'individuale, Melis è lungi dal ricadere nello psicologismo, come sarebbe se egli riconducesse le grandi innovazioni dell'economia dei secoli XIV-XV alla illimitata aspirazione del mercante al profitto, o ad altra molla spirituale e religiosa: esse sono invece lo splendido frutto dell'applicazione del mercante allo studio, per cui la razionalità dell'agire economico, e la stessa razionalità del conto (che ha, come ognun sa, la sua radice etimologica nel latino ratio) si configurano e si spiegano soltanto nel quadro e sul fondamento di una sorta di ratio studiorum, di "quello studio in cui - confessa Melis - vedo sempre la causa causarum delle grandi conquiste economiche e generali dei popoli; 183. Non c'è dubbio allora che il grande mercante è tale perché partecipa del clima generale della sua epoca, che, in definitiva, egli è uomo del Rinascimento in quanto la vigorosa ripresa degli "studia humanitatis", che è a fondamento del progresso morale e scientifico dell'epoca, è anche alla base dell'economia. Leggiamo: "La grande forza nel creare istituti (a cominciare dalle forme aziendali) e nell'espansione commerciale (in senso lato) di Firenze risiede massimamente nelle attitudini spiccatissime dei suoi uomini: inizialmente spinti dalla molla del lucro; poi è subentrato un ingentilimento - espresso, se vogliamo rimanere più aderenti a questo terreno, dalla reciprocità operativa in taluni campi, come in quelli della banca e dell'assicurazione -, che certamente è dovuto al clima umanistico il quale, tra l'altro, trasformò l'azienda in un centro di studio, ampliandone sempre più la sfera, fino ad investire - si può ben sostenere - l'intero scibile; 184.

A questo punto l'allineamento dell'operatore economico con le altre componenti della società è completo. Dico allineamento e non saldatura, perché dopo le scoperte di Melis nell'economico, tutta una serie di problemi ch'egli non ha inteso affrontare 185, relativi alle implicazioni sociali, politiche, psicologiche, ecc. devono essere ripresi e indagati, anche con il suo metodo ma, soprattutto, con la sua documentazione: solo allora si potrà sostituire a quella di Alfred von Martin una nuova e più persuasiva "Physiognomik und Rhythmik bärgerlicher Kultur". Per quanto lo riguarda, Melis può mostrare tutta la sua soddisfazione per aver riscontrato e verificato, nel settore dell'economia, quanto nei loro specifici campi gli storici dell'arte, della scienza, della politica ecc. avevano già da tempo osservato; forse da troppo tempo perché, in definitiva, quelli ai quali Melis si compiaceva di allinearsi erano Michelet e Burckhardt. "Con queste ultime constatazioni - egli scrive - siamo entrati nei decenni finali del XIV sec., nell'importantissimo periodo storico che va sotto il nome di Rinascimento: come ha già fatto lo storico dell'arte, lo storico della letteratura, lo storico della scienza e via di seguito, proponendo e risolvendo aspetti e forme assunte dai relativi fenomeni dell'epoca, chiarendo l'influenza cui soggiacquero ed allo stesso tempo il contributo apportato negli elementi del fenomeno in generale, così lo storico dell'economia, si domanda, prescindendo (ma fino a un certo punto) dalle operazioni materiali, se l'uomo che agisce in questo campo - l'operatore economico - assuma dei caratteri nuovi in stretta derivazione da quella atmosfera, caratteri che gli permettono di segnare indirizzi innovatori e conseguire risultati di larga portata nel compimento delle sue azioni peculiari; 186. E la risposta naturalmente è positiva.

Ed anche l'inquadramento cronologico è perfetto. Melis era partito confutando la decadenza economica dei secoli XIV-XV: ne aveva scoperto la positività, cioè le molte e sraordinarie innovazioni nella struttura produttiva, fino a parlare di una vera e propria rivoluzione, intorno al 1380, con la conquista della discriminazione dei noli. Pareva che questa rivoluzione si configurasse come una successiva fase di quella profonda trasformazione dell'economia che aveva avuto inizio con la rivoluzione commerciale del sec. XII, e di cui si poteva legittimamente cercare le premesse in una "rivoluzione" agraria, avvenuta nei due secoli precedenti con la ristrutturazione curtense e l'ampliamento della produzione. Ma non è così. Negli ultimi lavori di Melis, un periodo sempre più chiaramente delimitato e circoscritto di storia economica, si staglia, con i suoi caratteri di assoluta novità e originalità, sullo sfondo dei secoli medievali. Accentuando questi caratteri e togliendo da esso ogni riferimento al capitalismo (cosa che elimina equivoci concettuali ma anche le implicite proiezioni verso il passato e verso il futuro, cioè verso il capitalismo pirenniano e quello marxiano) Melis compie il suo passo risolutivo onde far coincidere perfettamente quel periodo della storia economica con il rinascimento della storia culturale. E' sintomatico ch'egli concluda facendo intervenire, come elemento di assoluta rilevanza metodologica, il fattore cronologico: "in the same way we are equally sure of a collateral factor, which can never be neglected: the chronological factor, since all these elements can be placed in a period of time which plants its roots at end of the 14th century and achieves, then, its vastest and most definite expression in the second half of the next century, in full coherence - noting the beneficial effects which spread over all society - with the historic period of the Renaissance; 187.

Il Rinascimento economico di Melis si snoda nei termini tradizionali e propri di quello artistico e culturale, dal 1380 alla metà del sec. XVI, quando sopravviene la decadenza anche economica 188; ma il suo nucleo germinatore è nei decenni decisivi a cavallo dei secoli XIV-XV, l'età di Francesco Datini e... di Coluccio Salutati. Anche sotto il profilo dei contenuti economici (nascita della banca e trionfo dell'ordine scritto, affermazione del principio della discriminazione dei prezzi di trasporto, della assicurazione ecc.) questo periodo è la matrice del mondo moderno, e segna la più completa rottura con il passato 189: siamo - come dice Melis - al passaggio da un mondo "antico" a un mondo "moderno" 190.

Così nei saggi di sintesi, raccogliendo le fila del lavoro compiuto, quasi a chiarire a se stesso e agli altri il senso e lo scopo di esso, Melis mostrava di intendere quella sua immensa fatica soltanto come risposta al problema emerso nel congresso fiorentino sul Rinascimento del 1952, che era il problema del rapporto tra splendore intellettuale e decadenza economica di quell'età: egli poteva ben dire di aver trattato l'economia del Rinascimento, laddove altri aveva introdotto ulteriori elementi di confusione parlando del rinascimento dell'economia; salvo che oggi qualcuno potrebbe rilevare essere quella del Melis non l'economia del Rinascimento, ma l'economia rinascimentale, vale a dire gli aspetti luminosi e progressivi dell'economia di quell'epoca. In tutti i modi è evidente che, concepita come risposta a quegli interrogativi, questa interpretazione dell'opera di Melis, anche se confortata dall'assenso del suo autore, è riduttiva, e che ben altro essa contiene: quello cui si è soltanto accennato nella prima parte di questo paragrafo.

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