< Federigo Melis, storico/4 - Tra nuovi indirizzi e vecchie polemiche


MARIO DEL TREPPO, Federigo Melis, storico

da Studi in memoria di Federigo Melis, I, Napoli 1978 (Giannini ed.)

4. Tra nuovi indirizzi e vecchie polemiche

Gli scontri e le polemiche che accompagnarono la Mostra pratese durante la sua travagliata gestazione e, ancora per lungo tempo, dopo che su di essa le luci dei riflettori si erano spente non possono costituire, da qualunque parte le si guardi, pagine esaltanti di storiografia. Esse piuttosto potrebbero trovare la loro più naturale corrispondenza nel clima che solitamente accompagna i concorsi universitari, e anche per questo furono alimentate e a loro volta alimentarono le manovre, gli scontri, le polemiche di un concorso di storia economica che si svolse pressoché parallelamente e che, tra rinvii, dimissioni di commissari, intimidazioni e sospetti, si concluse finalmente nel 1957 portando Federigo Melis, come si suol dire, in cattedra: su quella cattedra pisana che già dal 1950 egli onorava in qualità di professore incaricato 94. Tutto ciò non deve far gridare allo scandalo i moralizzatori, così come i navigati e gli scettici non hanno motivo di compatire l'ingenuità del Melis, la sua convinzione che chi voleva far naufragare la sua mostra era mosso soltanto dalla paura di vedere infrante le proprie interpretazioni storiografiche. Come la storia avanza grazie alla feccia di Romolo, così la storiografia si nutre, ed alimenta le sue teorie, anche di queste passioni e rivalità.

Certo la novità delle sue interpretazioni e scoperte, anche quelle meno cariche di effetti esplosivi, colpivano, e provocavano reazioni e qualche rigetto anche in storici equilibrati ed alieni dalla polemica. Un breve articoletto pubblicato su una rivista pratese nel 1954, in cui Melis concludeva dicendo che "mediante la mirabile organizzazione in un unico sistema dei trasporti, le aziende toscane che la hanno realizzata saldano perfettamente i due bacini mediterranei facendone un solo mare;, quale il Mediterraneo non era mai stato prima 95, suscitava il più vivo apprezzamento del Luzzatto, ma anche il suo risentimento di veneziano: "ottimo - gli scriveva - e veramente importante per le notizie concrete e del tutto nuove che Ella trae dall'Archivio Datini; discutibilissimo e anzi, mi permetta di dirglielo con dovuta franchezza, del tutto sbagliato nelle pagine introduttive, in cui Ella dalle testimonianze di un solo mercante, per quanto grande che egli fosse, si è lasciato indurre ad affermare l'esistenza di una netta separazione dei due campi d'azione nel Mediterraneo orientale e occidentale. Questa separazione che esisteva forse nell'XI secolo non è mai esistita dopo la I crociata: anche dopo la guerra di Chioggia (...) i veneziani continuano i viaggi annuali fuori dello stretto di Gibilterra lungo le coste di Barberia e Aigues Mortes. Potrei citarle a decine testimonianze di mercanti veneziani nelle Baleari, ma tutto questo per mettere in guardia contro le generalizzazioni sempre pericolose; 96. E Melis, in una lunga e documentatissima lettera, gli rispondeva con la consueta deferenza, ma non senza una punta di ironia: "Effettivamente si deve essere sempre molto cauti nelle generalizzazioni, come Ella avverte più volte nel Suo trattato di Storia economica. Io ho presentato come vere per il 90% alcune situazioni; non v'è dubbio, invece, che sarebbe stato bene presentarle come tali per il 70%; 97.

Decisivi nella sua produzione scientifica furono gli anni dal '50 al '55: non c'è niente di quello che egli scriverà anche in seguito che non sia stato pensato, programmato o scoperto in quegli anni datiniani, quando in una febbrile quasi allucinante fatica passavano tra le sue mani le centinaia di registri, le migliaia di lettere di quell'archivio.

Nel settembre 1955 si tenne a Roma il X Congresso Internazionale di Scienze Storiche, imponente rendez-vous della cultura storica mondiale, che dette la misura delle attitudini organizzative del nostro paese e dell'ancora alto livello dei nostri studi storici, o meglio (poiché non vorrei insinuare il sospetto di una attuale decadenza) della loro capacità d'incidenza e di connessione con quelli europei. Nella sezione medievale la relazione generale di base su "L'économie européenne aux deux derniers siècles du Moyen-âge" era stata affidata a M. Mollat, P. Iohansen, M. Postan, Ch. Verlinden e al nostro Sapori 98. Fu una relazione molto ampia e attenta alla già notevole bibliografia che dall'ultimo congresso parigino del '50 si era venuta accumulando sull'argomento, ma ricca più di suggestioni e di interrogativi che di certezze, e fatalmente, anche, di contraddizioni, onde il solito Lopez poté dire che Michel Mollat aveva compiuto un miracolo sconosciuto alle Metamorfosi di Ovidio, dal momento che, preso in mano un "rapport" a cinque teste, rivolte in cinque divergenti direzioni lo aveva trasformato in una creatura normale, fornita di una sola testa al centro 99.

Il Sapori, per sua parte, sviluppò il tema dei beni del commercio internazionale e della circolazione dei prodotti poveri, come le derrate alimentari 100, argomento cui già aveva prestato qualche attenzione nel congresso di Zurigo del 1938 101, ma questa volta abbandonando la sua abituale polemica antisombartiana e bene inserendosi nel discorso dei colleghi stranieri.

Per Federigo Melis l'argomento era quello che volgarmente si dice un invito a nozze. Nessuno dei relatori infatti conosceva la documentazione datiniana, e la bibliografia che avevano avuto sott'occhio, eterogenea, settoriale, di diversa e regionale provenienza, non poteva che dare alle argomentazioni presentate un'impressione di provvisorietà e di incertezza. Melis chiese di intervenire e parlò a lungo, lasciando chiaramente intendere che per tutti quegli interrogativi egli aveva le risposte, e che una carta, geograficamente sicura, dei luoghi di produzione, delle correnti di scambio, della loro varia consistenza quantitativa, relativamente alle merci povere - grano, vino, olio, prodotti della pesca, materie tintorie, lana, sale ecc. - ora finalmente entrate nel grande circuito internazionale, egli era in grado di darla 102. Sull'altra fondamentale tesi su cui gravitava la relazione - la decadenza dei secoli XIV-XV -, pur limitandosi a richiamare la necessità di ancora lunghi studi prima di giungere a conclusioni sicure, Melis mostrò di non condividere le affermazioni dei relatori e di quanti intervennero, più o meno sfumate e graduate, ma tutte concordi sulla decadenza, nessuno ritenendo di poter ammettere, nemmeno per l'Italia, la possibilità di un qualche progresso nel periodo 1350-1500 103. La mostra datiniana di Prato, che Melis invitava i congressisti a visitare, si può dire che fu la sua controrelazione.

Intanto cominciavano ad uscire i suoi contributi sulla storia economica di quei secoli, tutti gravitanti su temi che erano stati al centro del congresso romano. Nel corso di conferenze, congressi scientifici o celebrazioni, i suoi interventi - troppo spesso affidati solo alla registrazione magnetica - apportavano una tale quantità di elementi nuovi da lasciare gli studiosi sempre sorpresi, e talvolta anche un poco amareggiati nel vedere d'un colpo vanificati i propri sforzi, frustrate ambizioni legittimamente coltivate: ciò capitava specialmente a studiosi stranieri, che non avendo nel loro paese una sufficiente documentazione, vedevano sconvolte le loro ipotesi e ormai dipendere da Francesco Datini la conoscenza della propria storia.

Ma il libro, un libro che desse la visione complessiva di tutti quei problemi sollevati, e anche risolti, tardava ad uscire. E quando finalmente nel 1962, in luogo del promesso catalogo della mostra pratese, apparve la seconda delle monumentali opere di Melis - Aspetti della vita economica medievale (studi nell'Archivio Datini di Prato) - l'ammirazione fu pressoché generale, ma anche la delusione, per essere quel volume solo il primo di una trilogia che rimandava all'ultima sua parte il lettore smanioso e avido di conclusioni. Non deve allora stupire, proprio in relazione alle attese suscitate dalla mostra di Prato, il clamore e l'entusiasmo che sollevò un libro su Francesco Datini, opera di una scrittrice inglese, apparso nel 1957 e subito tradotto in italiano, ancorché si trattasse chiaramente di un lavoro di divulgazione 104. Melis, comprensibilmente amareggiato per il contrattempo e per il modo come certe sue indicazioni e schede erano finite nelle mani e nella penna di costei, stroncò il lavoro, che a suo giudizio non era più che un "romanzetto" 105; ma gli specialisti italiani, pur quelli di storia economica e anche qualche straniero, ritennero invece che il confronto tra il Datini della Origo e il Datini del Melis non solo fosse proponibile, ma meritevole anche di un serio dibattito. La sproporzione tra i due livelli di discorso passò, almeno in sulle prime, inosservata. Ma se ne scaturì una polemica, della quale a posteriori si deve dire che fu quanto meno donchisciottesca, la colpa fu anche di Melis che scendendo un po' ingenuamente sul terreno dell'avversario contribuì a tener desto l'interesse per un libro che non ne meritava 106.

In realtà la polemica era tra Melis e Sapori. Lo storico dei Bardi e dei Peruzzi si era imbattuto in Francesco di Marco Datini e nel suo archivio fin dagli anni precedenti la guerra, e nel congresso di Zurigo del '38 aveva proposto lo studio biografico del mercante pratese in una galleria di "mercatores italici" che, nel clima di esaltazione imperiale al quale era difficile anche per un antifascista sottrarsi, doveva diventare per tutti gli italiani fonte di meditazione e di orgoglio, poiché quei mercanti "onorarono la Patria [con l'iniziale maiuscola come allora si usava] tenendone alto il nome ed il prestigio al di là dei mari e della frontiera alpina, con il farsi consapevoli pionieri di civiltà; 107. Ma all'indomani della catastrofe politica e militare del paese s'impose anche agli storici un esame di coscienza. E nella revisione cui fu sottoposta la storia d'Italia, toccò anche al mercante rinascimentale la sua parte d'imputazioni: una spugna impietosa passò sopra le virtù eroiche del pioniere di civiltà e ne venne fuori il meschino borghese, stretto al suo "particulare", l'avido accaparratore della ricchezza sociale, che froda il fisco, si estranea dalla vita politica e nega alla patria ogni sacrificio: insomma la perfetta incarnazione dell'uomo del Guicciardini. Della crisi della libertà italiana egli diventava uno dei principali responsabili.

Il problema della decadenza economica dei secoli XIV-XV, che era problema generale assai dibattuto in quegli anni - come lo è ancora - dagli storici stranieri, più che altro incerti soltanto sull'entità del fenomeno (recessione, stagnazione, caduta verticale con o senza recupero) si legava, invece, nella storiografia italiana, al problema della decadenza politica e morale dell'Italia nel '500. Il Sapori sentì profondamente questo tema, un tema in cui antichi motivi romantici e desanctisiani venivano riproposti e resi attuali anche dalla recente scoperta dei quaderni gramsciani 108. In questo clima, a mio giudizio, si matura la proposta del Sapori per una diversa periodizzazione del Rinascimento, proposta ch'egli presentò per la prima volta al convegno fiorentino del 1952, convinto di suscitare uno scandalo 109.

In realtà la tesi che il vero Rinascimento andava retrodatato, e le sue origini individuate nella ripresa del grande commercio internazionale dei secoli XI-XII e nella conseguente rivoluzionaria affermazione della ricchezza mobiliare di contro a quella fondiaria, mentre viceversa nei secoli burckhardtianamente rinascimentali si erano verificati la contrazione delle attività produttive, il ritorno alla terra, l'infiacchimento dello spirito borghese e l'indifferentismo etico-politico, questa tesi era stata - specie per la prima parte - già più che abbozzata da G. Volpe, nella recensione critica al Neumann, nel 1904 110, e risaliva, si può dire, al Bettinelli, mentre, specie per la seconda parte, erano in essa visibilissime le tracce della interpretazione romantico-risorgimentale di un De Sanctis e di un Villari. La critica però che nel convegno fiorentino si mosse al Sapori riguardava un altro punto, e fu unanime: che egli aveva parlato del rinascimento dell'economia anziché dell'economia del Rinascimento, venendo meno al compito affidatogli 111. I contenuti della sua tesi e i loro risvolti metodologici meritano però qualche ulteriore considerazione, proprio per un migliore raffronto con le posizioni, al riguardo, del Melis.

Nel discorso del 1952 Sapori individuava le strutture portanti dell'economia mercantile - che era il fondamento del suo Rinascimento dalla cronologia lunga, secoli XI-XVI - nella forma delle società commerciali (colleganza, compagnia ecc.), nella tecnica contabile, negli strumenti di pagamento, nei procedimenti di lavorazione, nei mezzi di trasporto ecc.: tutti questi elementi nuovi, fattori dello straordinario progresso del secolo XIII, avrebbero conosciuto in seguito solo uno sviluppo quantitativo, permanendo qualitativamente identici, onde il giudizio del Sapori fortemente negativo sui secoli XIV-XV, (dove si vede che a lui era estraneo il discorso marxiano della quantità che si converte in salto di qualità). Nel caso specifico, lo storico senese non si avvedeva che certe differenze e novità, all'interno di una stessa struttura, o di un suo particolare elemento, apparentemente identici, finivano invece per costituire delle rotture di continuità, ed essere fattori produttivi di uno sviluppo qualitativo, oltre che quantitativo. Tali infatti sono, come emergerà dalle indagini del Melis: il sistema delle aziende divise rispetto all'azienda indivisa, pur conservandosi, nelle une come nelle altre, la medesima sembianza giuridica della compagnia; il sistema della partita doppia rispetto alla pur progredita duplicità dei conti; la specializzazione ed esclusiva applicazione allo studio dell'imprenditore del '400 rispetto alla già notevole preparazione tecnica e culturale dei mercanti dei secoli precedenti. E fin qui si tratta di argomenti non estranei alle conoscenze e all'analisi del Sapori; altri aspetti invece, quali la introduzione della girata, la diffusione dello chèque, la rivoluzione dei noli, la modificazione qualitativa del tenore e del livello della vita in seguito all'accrescimento quantitativo della circolazione dei beni, o ancora lo sviluppo del servizio postale e dell'informazione, gli sfuggirono completamente, e si deve solo al Melis la loro scoperta e considerazione storica in chiave di progresso economico. Ma il contrasto tra una fase ascendente e una fase discendente del suo Rinascimento, prendeva più chiara consistenza quando il Sapori passava a delineare il soggetto dell'economia, quel mercante che nelle sembianze di uno Scaglia Tifi, di un Benedetto Zaccaria, di un Arnoldo Peruzzi era l'esaltazione dell'ardimento e della moralità eroica, mentre in quelle di Francesco Datini era il compendio di ogni tipico vizio della nostra borghesia e lo scadimento delle antiche virtù italiche.

Dodici anni più tardi, nel saggio scritto per le Nuove questioni di storia medievale dell'editore Marzorati, Sapori ripresenterà la sua proposta, accentuando lo stacco tra la fase iniziale e quella finale della parabola che, sotto l'aspetto economico, si era compiuta nel periodo storico considerato, ma soprattutto convogliando sul suo assunto una esemplificazione varia di provenienza eterogenea - politica, cultura, religiosità, arte, scuola - atta a comprovare la aderenza e l'allineamento di tutti gli aspetti della vita sociale in consonanza con quello economico 112. Tutto ciò era certamente implicito nella intuizione del 1952, ma ora, sotto la spinta della lettura delle Annales e degli storici francesi, veniva approfondito e volto in direzione di una globalità a dire il vero equivoca e mai troppo chiaramente intesa sotto il profilo metodologico dal Sapori, sì che il suo modo di procedere al riguardo sembra fatto apposta per giustificare le ricorrenti perplessità e riserve che la storiografia "à part entière" ha sempre suscitato in Italia 113. Comunque sia, proprio alla globalità ed all'esempio francese Sapori si richiamava nell'atto di sottolineare i gravi limiti, a suo giudizio, metodologici della impostazione economicistica del Melis 114. Vedremo di che si tratta.

Ma per restare al Sapori, non è difficile rilevare come l'accostamento tra i presunti parallelismi economici, sociali, culturali, artistici ecc. sia di tipo meccanicistico, come la coincidenza così ottenuta è soltanto illusoria e tanto più facile e a buon mercato quanto più egli sta "in superficie" e guarda "da lontano" all'oggetto della sua analisi: fatalmente, con l'aumento delle distanze cronologiche diminuiscono gli scarti e le differenze tra i diversi fenomeni o aspetti della realtà, le interne spinte e controspinte sembrano come annullate e assorbite dalle tendenze di lungo periodo, e la direzione del movimento appare univoca, così come appare stringente la connessione. Lo spirito del tempo si può dire che avvolge tutto, e il gioco, poiché di questo si tratta, è fatto. Ingenua è la pretesa, non che l'economia sia alla base e a fondamento del tutto, ma che ai picchi del suo diagramma corrispondano illico et immediate i vertici della produzione intellettuale e artistica; e viceversa. Quanto poi ad un allineamento del tipo "l'economia per l'economia", "la politica per la politica", "l'arte per l'arte", esso poggia sul principio moderno (e non già rinascimentale) della distinzione e autonomia delle singole sfere, o meglio, esso comporta un capovolgimento prospettico, e presuppone il punto di arrivo raggiunto, perché, nel Rinascimento, lo scopo che si voleva immediatamente conseguire non era la rottura epistemologica dell'unità del sapere medievale, ma un metodo di azione politica (con Machiavelli), un determinato comportamento economico (con L. B. Alberti e B. Cotrugli), una regola estetica (ancora con l'Alberti).

Ben altra profondità c'era nell'analisi, che del problema della frattura-continuità tra Medioevo e Rinascimento aveva fatto F. Chabod, nei celebri saggi storiografici in risposta alla cosiddetta "rivoluzione dei medievisti" 115. Pur rimanendo sul piano delle Weltanschauungen, egli si era guardato da soluzioni formalmente globalistiche, fondate sulla pretesa unità di tutti gli aspetti della realtà storica, o meglio, nel suo caso, sulla identità delle manifestazioni della coscienza contemporanea di fronte ai diversi campi dell'umano operare; e del Rinascimento ci aveva dato un'immagine non compatta, levigata, ed uguale in tutte le sue particolari determinazioni, bensì percorsa da crepe e incrinature. Tuttavia, al dire di V. De Caprariis, riaffiorava anche in Chabod, l'insoddisfazione per il carattere composito della sua costruzione, e, con le aporie e i contrasti (e la separazione, da lui rilevata nella storiografia italiana, tra studi politico- economici da una parte, e studi letterario-culturali, dall'altra) anche la nostalgia per le rappresentazioni e interpretazioni unitarie di tipo romantico-risorgimentale 116. Infatti, se vogliamo, anche la globalità perseguita da Sapori denunciava le sue radici romantiche, l'attaccamento ad una visione organicistica dei periodi storici, secondo la quale essi si presentano come forniti di un'anima che li pervade in tutte le loro parti; sì che il suo giudizio sulla decadenza italiana nel Rinascimento) ricalcava quello desanctisiano non solo nei contenuti, ma nella stessa impostazione metodologica 117.

La periodizzazione saporiana avrebbe avuto probabilmente una sorte diversa e meno fortunata, se a rilanciarla non fosse intervenuto uno storico di collaudata vocazione alla "Periodisierung", sottile e logico come Delio Cantimori 118. Egli mostrò di apprezzare la proposta del collega storico dell'economia, ma va da sé che delle sue argomentazioni vedeva tutti i limiti concettuali e le ingenuità. Come si poteva accettare la coincidenza tra fenomeni economici e fenomeni culturali, quando perfino gli storici del '700 avevano lasciato intendere che la fioritura intellettuale del Rinascimento non coincise con la fioritura economica, ma si svolse sul fondamento di essa? Non era certo scientifica la pretesa di un contemporaneo disporsi ad un medesimo livello di tutti gli aspetti della realtà storica.

Cantimori aveva sott'occhio il brillante discorso che, nello stesso 1952, ma indipendentemente dal Sapori, e in un'altra qualificata sede, aveva svolto il Lopez: in esso si respingevano le generalizzazioni teologico-sociologiche e si proponeva una più complessa - se non proprio dialettica - relazione tra economia e cultura, la quale poteva portare ad esiti differenti in un'epoca e in un'altra, come di fatto avvenne nell'alto Medioevo e nel Rinascimento. Allora la rivoluzione commerciale aveva prodotto un'effervescenza spirituale e il progresso della cultura; durante il Rinascimento la depressione, seguita da una stabilizzazione a livelli inferiori, se non comportò nessuna decadenza generale della cultura, o involuzione dello spirito, ed anzi dette luogo a manifestazioni artistiche del più alto livello, impose peraltro a queste un carattere fortemente contraddittorio: sotto l'aspetto psicologico esse furono marcate da opposte visioni del mondo, pessimistiche le une, ottimistiche le altre, nessuna però pervasa dalla fede nel progresso dell'umanità 119.

Per parte sua il Cantimori si sforzava di superare le difficoltà con una rappresentazione più articolata dello svolgimento storico di quell'età, che egli chiamava dell'Umanesimo, e che attraverso progressi e regressi, incrementi e depressioni, lotte e contrasti, aveva plasmato l'Italia e l'Europa tra la fine del feudalesimo e l'inizio del capitalismo, tra il 1300 e il 1700. Ma forse qui preme osservare come il Cantimori, intendendo salvaguardare le esigenze della continuità e insieme quelle della periodizzazione, e comprendere "universalmente" gli svolgimenti economici, sociali, religioso-ecclesiastici ecc. nei loro reciproci rapporti, respingesse la suggestione della coincidenza cronologico- individuale, per una netta opzione a favore dello svolgimento, al limite, addirittura, della successione cronologica, con il rischio magari di una spiegazione causalistica del tipo "post hoc propter hoc". Scriveva egli infatti prendendo lo spunto da quanto avevano detto gli storici del '700: "la sostanza della loro definizione ci sembra pur meritevole d'attenzione, per lo meno da parte di chi non dimentichi che la cronologia, come si diceva ai bei tempi, è uno degli occhi della storiografia, che lo svolgimento della storia è definibile soltanto nella successione temporale (o almeno mediante la successione temporale): cioè in fondo per chi intenda, con una qualche coerenza, la storia come svolgimento, o come vuole la terminologia più aggiornata dinamicamente e non staticamente (Van Baeyens). Se si intende, meccanicamente e staticamente, il rapporto vita economica-vita sociale, politica, "culturale" come rapporto di coincidenza, ci si mette su una strada che, mi pare, preclude una reale comprensione storica: si finisce col cercare un interesse economico personale, individuale, soggettivo ("capitalista" - "pescecane") invece che un rapporto reale (e non particolaristico) fra energie produttive e situazioni giuridico-sociali, si finisce per credere che non si possa dire per es. rappresentativo del "proletariato" un gruppo politico del quale faccia parte, puta caso, il figlio di un professore o di un banchiere (...) 120.

Tutto ciò costituisce una critica anche troppo facile nei confronti del Sapori, ma anche stranamente riduttiva della portata dei temi da lui suscitati, e in tutti i modi insoddisfacente per la soluzione di quei problemi di metodologia della storia che si chiamano frattura e continuità, struttura e congiuntura.

Nel dibattito sul mercante italiano medievale, come in quello sulla decadenza economica del Rinascimento, un posto spetta naturalmente anche a Federigo Melis, un posto conquistato più che con le raffinate armi della dialettica metodologica, con le solide e documentate acquisizioni di archivio. La pubblicazione della Origo aveva acceso le polveri. Essa portava argomenti alla tesi del Sapori, il quale non perse l'occasione per ritornare sulla figura di Francesco Datini, quale egli l'aveva intesa nel 1946, e, con i nuovi elementi biografici e aneddotici emersi dal libro dell'inglese, accentuare ulteriormente quei caratteri dell'operatore e dell'uomo che erano, a suo dire, l'espressione del cambiamento di mentalità che nel '400 segnò il passaggio dalla fase eroica della rivoluzione mercantile a quella di stagnazione economica e di decadenza morale, propria del cosiddetto Rinascimento 121.

Negli Aspetti della vita economica medievale Melis aveva condensato in poche pagine il "ritratto" del Datini uomo e operatore economico, ma in tutto il ponderoso volume aveva trattato i multiformi aspetti della sua imponente attività. Dell'uomo si era occupato più che altro per ribattere agli argomenti di cui si erano serviti, nel delinearne il ritratto, la Origo e il Sapori; e c'era riuscito, ma a prezzo di uno scivolamento nell'apologetica, che non era il modo migliore per confutare, sul piano scientifico, l'opposta denigrazione del mercante italiano, frutto di falso moralismo e, oggi, purtroppo anche di conformismo politico. Il suo si può dire fu un errore tattico, ché la strategia era ineccepibile: per comprendere a fondo il mercante è necessario esaminarne l'attività sua propria, che è quella economica, magari anche separandola da ogni altra manifestazione, e circoscrivendola, almeno in via preliminare. "Potremo affermare di conoscere Francesco di Marco Datini - scriveva - soltanto quando - più che indugiare sulla tutela cui egli e il fratello vennero affidati, sui rapporti con la moglie, sulle cariche pubbliche rivestite o rifiutate, sulla pratica della religione, sulle relazioni con i suoi simili, sulle espressioni di generosità o di avarizia e sull'atto di liberalità che ha concluso la sua vita - noi ci saremo addentrati nella configurazione delle varie aziende da lui costituite e, soprattutto, del congegno onde queste aziende erano legate a sistema (...); quando avremo inteso le ramificazioni capillari di queste unità del sistema, attraverso la rete dei corrispondenti e rappresentanti; quando saremo risaliti alle concrete manifestazioni vitali di tali aziende, riassumendo la totalità delle operazioni; quando infine avremo particolarmente giudicato l'uomo in questo campo, di gran lunga il più importante, o, per lo meno, quello caratteristico, in cui egli profuse la parte migliore della sua vita e delle sue capacità (...): soltanto quando ci saremo corredati di indagini coscienziose e accorte su tutto il carteggio specifico della collezione e sui libri contabili e avremo portato l'attenzione agli ordini di investigazione sopra appalesati, potremo ritenerci autorizzati ad esprimere un giudizio serio e non avventato su Francesco di Marco Datini, operatore economico italiano del Rinascimento; 122.

Gli pareva insomma inconcepibile che "nella storiografia economica, debba essere distaccato l'uomo dal mercante, totalmente, fino a negligerlo del tutto come mercante (...); 123, per cui rivendicava, anche di fronte ai nomi di Pirenne e Febvre invocati da Sapori, la legittimità di una indagine rigorosamente economica, e quindi settoriale. Era l'unico modo per avanzare nella conoscenza scientifica del tema, anche a costo di dispiacere ai neofiti della storia globale, come il Sapori, e a quanti, ossessionati dagli spettri dell'erudizione, del tecnicismo, della statistica e di quante altre insidie potessero minacciare gli eterni umani valori della storia, finivano per assecondare i propositi di una storiografia di generici.

A me sembra del tutto inaccettabile la contrapposizione che, al riguardo delle monografie di Melis e della Origo, ha inteso proporre E. Sestan, tra "due diversi modi di intendere la ricerca e la problematica in fatto di storia economica: da un lato (Melis) un tecnicismo estremo, ben spiegabile in uno studioso proveniente dalla ragioneria, volutamente chiuso a ciò che non entri nel puro fatto economico; dall'altro, un senso più lato, che coinvolge e immerge, senza falsarlo, il fatto economico nella totalità della vita sociale, morale, intellettuale di un'epoca e contribuisce a caratterizzarla e ad esserne caratterizzato; 124. Il modo evidentemente è uno solo. Questo giudizio mi ricorda certi lusinghieri apprezzamenti di cui i nostri storici gratificavano volentieri Corrado Barbagallo in quanto storico dell'economia, come quando ad esempio il Pepe, dopo essersi compiaciuto perché nelle mani dell'autore della Storia universale il metodo economistico non era mai arido, ma sempre vivificato da un profondo interesse umano, concludeva: "Il racconto politico prevale, ma ricevecolorito [la sottolineatura è mia] e spiegazione dall'ambienteeconomico e culturale; 125, cheè un ben strano elogio per uno storico dell'economia.

La contrapposizione è falsa o - ma non è addebito da farsi a un uomo come il Sestan - pretestuosa. Alla totalità della vita sociale, morale, economica ecc. non si giunge stando in superficie e sulle generali, e rinunciando alla specializzazione, che è settoriale perché disciplinare; al contrario, proprio attraverso gli strumenti più raffinati della tecnica, e le impostazioni tecniche più consapevoli, siamo in grado di leggere quello che il comune lettore non legge, di giungere a quelle profondità di analisi dove è possibile attingere la totalità, vale a dire l'interdipendenza dei fenomeni storici, ma, eventualmente, anche le fratture insanabili, i contrasti tra campi epistemologici e realtà operative: dissimularli con operazioni di "vernissage" è tanto facile quanto scientificamente riprovevole. Ma che il Sestan veda nel tecnicismo del Melis un grave limite, sorprende meno quando pensiamo che uno storico dell'economia, e un tecnico, come il Luzzatto gli rimproverava addirittura l'uso, in quel libro, delle "mode" e delle "mediane" 126.

Gli è che la scuola di storiografia economica, che nel Luzzatto aveva il suo indiscusso maestro, era ancora troppo vicina alle polemiche fine-ottocentesche tra i fautori dell'asservimento della storia economica all'economia politica, o alla sociologia, quelli che la concepivano come svolgimento particolare della storia generale, per non sentire un profondo bisogno di liberazione, liberazione da ogni schematismo, generalizzazione, dottrinarismo, a ragione o a torto imputati di mortificare l'individuale storico 127. Ad un prorompente legittimo desiderio di concretezza si accompagnava un senso quasi di ripugnanza verso quei vecchi idola, specie verso la cosiddetta generalizzazione, concetto questo assai vago, sotto il quale venivano messi, per bollarli, e gli strumenti categoriali che presiedono al lavoro storiografico, e la pratica di estendere, anche legittimamente, risultati, giudizi, affermazioni ad aree geografiche e periodi storici appena più ampi di quelli da cui quei giudizi erano emersi. La generalizzazione era sempre astratta e arbitraria - almeno nelle definizioni -, tuttavia nei fatti ricompariva sempre di nuovo, né si riusciva a porre un limite alle sue prevaricazioni, dal momento che l'unico strumento valido per delimitarla, cioè la verifica statistica e quantitativa, era rifiutato anche da molti storici economici. Il Luzzatto che pur aveva avvertito con chiarezza l'urgenza di uscire da queste difficoltà, e individuato nella storia sociale il modo per farlo, dà spesso l'impressione di essere incerto e oscillante tra un generico metodo storico e un tecnicismo economico.

Tra scienza economica e storia economica, così come tra storia economica e storia generale, il connubio appariva difficile, ma il divorzio era deprecabile. Né gli storici - quelli senza qualifica, e proprio per questo stranamente investiti di una più alta dignità - erano fatti per trar dalle panie i loro colleghi della storia economica. Anzi, non finivano mai di rimproverarli perché, occupandosi solo delle attività economiche, facevano discorsi troppo tecnici 128.

Se poi si avventuravano al di là dei fatti concreti e individuali, erano autentiche sgridate. C'è una pagina molto bella di Luigi Einaudi, il quale, pur con il dovuto rispetto per il Croce di cui condivideva la funzione e il ruolo svolti anche in questo campo, descrive questa strana e imbarazzante situazione: "Di nuovo, il Croce persuase i superbi a chinar la testa, ad esitare dinnanzi alle generalizzazioni. Oggi, chi in Italia persegua studi di storia economica, si mette in sospetto non appena abbia sentore di una tesi classificatoria o definitoria posta a fondamento dell'indagine, di una macchinetta pronta a spiegare il divenire degli avvenimenti, ed a libri di cotal fatta antepone persino le briciole erudite di chi si contenta di riprodurre documenti e raccoglie notizie sicure intorno a fatti municipali. Il che - concludeva risolutamente l'Einaudi - chiaramente non basta; ed ogni storico deve possedere nel cervello uno strumento mentale atto a comprendere gli uomini e gli avvenimenti di cui descrive; 129.

Federigo Melis, per natura poco incline alle teorizzazioni, e anche per ragioni di anagrafe estraneo, a differenza del Luzzatto e del Sapori, alle polemiche di cui abbiam detto, ricostruì la figura e l'attività del mercante di Prato con i mezzi più idonei allo scopo, cioè quelli che gli forniva la sua preparazione ragioneristica e contabile. Lo sorresse nella notevole fatica il convincimento che quella figura era esemplare del periodo che egli denomina, con una certa oscillazione - propria agli studiosi di storia economica - ora medievale ora rinascimentale 130. L'insistenza del Melis sulla universalità del mercante pratese non vuol sottolineare soltanto la vastità geografica delle sue relazioni mercantili o le immense possibilità di studio che il suo archivio ci offre, ma anche la esemplarità di quell'operatore economico. Non si tratta, in altri termini, di un lavoro condotto su un campione, con i noti rischi della generalizzazione appena si voglia uscire dal circoscritto campo della documentazione utilizzata; grazie alla lettura del Melis, l'eccezionale figura del Datini, mentre esprime tutto il suo valore assoluto nel contesto storico ed economico in cui opera, nello stesso tempo, affondando le sue radici in quel contesto mette in evidenza tutta una generale struttura altrimenti inattingibile. Questo perché il soggetto dell'attività economica individuato e focalizzato dal Melis "è l'azienda, e pertanto, i fatti economici soggiacciono all'azione di più energie personali, dal concepimento - generico e specifico dovuto al dirigente - alla esecuzione. Ed inoltre, - sottolinea sempre l'autore - così facendo, veniamo a mettere allo scoperto, con le qualità del mercante "grande" (di solito preso a modello) che è una figura eccezionale, le risorse e l'apporto delle figure medie e minori, attraverso cui l'azienda stessa si esprime ed agisce;.

Dentro questa prospettiva e su questi fondamenti metodologici, quanto c'è di episodico e di aneddotico viene ricondotto nei suoi limiti naturali e viene privato di ogni pretesa di tipicità. Anche il vecchio discorso sull'uomo Datini, sui suoi vizi e le sue virtù; circoscritto e collegato strettamente a quello dell'operatore economico esso viene sottratto all'arbitrarietà di certi giudizi fondati su atti singoli e individuali. Scrive Melis: "Noi non potremo mai renderci conto compiutamente delle virtù di Francesco Datini, soffermandoci solo sui suoi atti individuali o apparentemente tali: è indispensabile andare a studiarlo nei nuclei aziendali, con i quali, seppure a tanta distanza di luoghi, egli era pienamente immedesimato; 131.

Episodico e aneddotico è senza dubbio il fatto della schiavetta, che Francesco avendola avuta da un legame extra-coniugale, accoglie in casa, e addirittura affida alla moglie (e Melis giustificandolo fa il giuoco di chi cita quell'episodio a vergogna del Datini): qualunque ne sia il giudizio morale, resta un fatto individuale, che, per diventare significativo del comportamento dei mercanti del Tre-Quattrocento (ma perché solo dei mercanti?) richiederebbe altre indagini ed altre fonti. Non sono invece più episodici né evenemenziali, bensì inerenti alla struttura del pensare e dell'agire dell'imprenditore, ed al funzionamento del sistema in cui e su cui agisce, certi tratti che emergono dalla corrispondenza del Datini, una volta dimostrata, dall'analisi che Melis ne fa, la loro fondamentale tipicità. Quel che Francesco scrive ad un suo socio ("da stamani in qua non abiamo mai fatto altro, Istoldo e io, di legere, salvo la predicha e il desinare; e anchora n'abiamo a leggere tante, che n'avremo assai due dì; e, ancora, "per questa non ti posso dire più, sono 6 ore ed ho ancora a schrivere a Simone e a Tomaxo di ser Giovanni: e pure si vorebe un pocho dormire;) 132 non è la confessione di una particolare giornata, eccezionalmente faticosa, ma l'espressione più propria e caratteristica delle peculiari attività del nuovo imprenditore-dirigente, sempre più avvinto attorno alla corrispondenza.

Quel che al Datini chiede un altro suo corrispondente ("che vorebe uno fanciullo di 12 in 14 anni, che fosse istato alla bottegha de merciai o choregiai e vorebe che non avesse né padre né madre né fratelli: a ciò che ll'animo suo fosse tutto disposto alla bottega;) 133 non comporta nessuna valutazione sulla moralità di questo o quel mercante, ma delinea il meccanismo ed il funzionamento di un sistema produttivo, che è quello italiano o toscano dei secoli XIV-XV.

Ma volendo ora risalire dalla particolare e specifica ricostruzione del mercante di Prato ad una più generale complessiva valutazione delle novità introdotte dal Melis con il suo discorso storiografico, converrà fare ancora qualche osservazione sul metodo. Alla base della lettura del Melis c'è un metodo statistico quantitativo, ma non nel senso di chissà quale sofisticata elaborazione dei dati o artificiosa astrazione e combinazione di possibili relazioni tra gli elementi misurabili, bensì in quello di una rigorosa filologia dell'accertamento, una filologia, che, fondando il fatto e il dato, o una serie di dati, pone e delinea anche il campo della loro frequenza. Niente viene offerto "exempli gratia", ed il giudizio storico è sempre correlato, oltre che alla qualità, alla quantità delle testimonianze. Prima di avviare un qualsiasi capitolo di una sua indagine, Melis ci dà il campo di frequenza e di oscillazione delle fonti. Ogni affermazione o negazione non è mai assoluta (c'è questo e non c'è quello) ma, per così dire, quantificata, e la misurazione è implicita nel giudizio (c'è tanto di questo e tanto di quello). Lo "statistico" e il "quantitativo" opera quindi a livello dell'atteggiamento mentale e del comportamento dello storico, permea diffusamente il suo modo di procedere e di sentire; non si tratta più solo della scelta di certi temi d'ordine quantitativo (come la produzione, i prezzi ecc.) con i quali l'analisi statistica aveva fatto le sue prime prove e si era introdotta nella storiografia economica 134.

Da questo metodo discende una diretta conseguenza anche sul piano della narrazione storica, la quale è costruita non sulle fonti ma con le fonti. Quelle che a taluni critici di Melis parevano lungaggini documentarie, meritevoli di una vigorosa potatura o, nel migliore dei casi, di essere relegate e antologizzate in appendice 135, sono in realtà elementi costitutivi del suo discorso. Essi non hanno nessuna funzione esornativa, di commento o di coloritura (il romantico colore del passato), ma esprimono tutto lo spessore storico dell'epoca e dell'ambiente ricostruiti, le sue dimensioni, in rapporto certo con la prospettiva dell'osservatore, ma al riparo anche dalle insidie dell'anacronismo. Nello stesso tempo, quelle impropriamente definite citazioni, e quei diagrammi, mettono il lettore nella condizione - costante e continua - di giudicare le affermazioni dello storico (e in questo senso reputiamo esatta la definizione di "laboratorio aperto" data dal Rutenburg, anche se subito contraddetta con il considerare l'opera melisiana che gliela aveva suggerita quasi inaccessibile al lettore) 136.

Ma questa insistenza sulle novità metodologiche del Melis non è tanto giustificata dalla sua adesione a un metodo statistico e quantitativo che incontrava ancora diffidenza nei vecchi maestridella nostra storiografia economica, e, di riflesso, raffreddava gli entusiasmi dei giovani; essa è motivata anche da quella sua personale e originale riflessione sulle fonti che lo accompagnerà tutta la vita.

Potrebbe sembrare riduttivo questo ricondurre la metodologia all'euristica, ma Melis era di avviso contrario e con piena convinzione affermava la validità e novità metodologica di quel discorso. In un saggio, uscito postumo, infatti scrive: "Lo storico economico potrà dire di avere praticato metodologie nuove quando egli si sarà riportato nello stesso ambiente dove sono germinati e si sono espressi i fatti economici del passato, quasi collocandosi al tavolo del dirigente delle imprese di quei secoli, per rivivere con lui l'organizzazione della sua impresa ecc. ecc.: così e soltanto così, egli potrà dire di avere introdotto una tecnica di lavoro nuova, nella quale la novità è soprattutto costituita - come è facile comprendere - dalla utilizzazione dei documenti propri di quel mondo economico; 137.

Negli anni giovanili, esultante per la sua scoperta della scrittura contabile come fonte della storia economica, Melis aveva trovato la spinta per un discorso di ardua metodologia nella lettura - a dir il vero non proprio rispettosa delle intenzioni dell'autore - della Logica come scienza del concetto puro, là dove il filosofo dice che "una narrazione autentica è, insieme, un documento o un avanzo; è la realtà di fatto, quale fu vissuta e quale vibrò nello spirito di colui che vi assistette;. La scrittura contabile era parsa al Melis rispondere magnificamente a quei requisiti per "essere allo stesso tempo traccia e ragguaglio del fatto accaduto, assomma[re] i caratteri e le prerogative di "avanzo" e di "narrazione" del fatto medesimo;, per essere insomma "la realtà di fatto, quale fu vissuta;. "Il percorso dalla scrittura contabile alla storiografia - egli continuava in quello scritto - è meno lungo di quello che separa l'obiettivo accertamento del fatto dalla subbiettiva sua narrazione;, perché nella scrittura di conto le "cose accadute; e la "ordinata narrazione; di esse quasi si confondono 138.

Ma al di là di queste considerazioni, forse troppo ambiziose, relative ad una teorica delle fonti che lo tenterà ancora 139, e che sono di poca utilità per lo storico di mestiere, resta la sua geniale scoperta di una fonte nuovissima per la storia economica: una fonte tipicamente economica, anzi la sola propriamente tale, per essere diretta emanazione dell'ambiente e dei soggetti economici. Era come un immenso continente che si apriva all'intraprendenza e allo sfruttamento degli storici dell'economia, i quali per l'innanzi avevano proceduto quasi esclusivamente con strumenti documentari tutto sommato estranei alla loro disciplina, cronachistici, letterari, legislativi, contrattuali, ecc. Quanto Melis abbia tratto da questa scoperta, nei settori specifici dei suoi interessi e della sua competenza, è noto a tutti. A questi meriti, ne va aggiunto però un altro, veramente incomparabile, ed è il lavoro di sistemazione e di esegesi condotto sulle fonti contabili, lo svisceramento di tutte le loro possibilità, la guida preziosissima alla loro lettura che Melis ha messo a disposizione e alla portata di tutti 140.

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