MARIO DEL TREPPO, Federigo Melis, storico

da Studi in memoria di Federigo Melis, I, Napoli 1978 (Giannini ed.)

2. Dalla ragioneria alla storia

La Storia della Ragioneria, pubblicata nel 1950, è la prima delle grandi opere di Federigo Melis: si sarebbe tentati di dire la prima delle sue opere monumentali, se l'aggettivo non suonasse, a un tempo, fastidiosamente enfatico e, al contrario, addirittura derisorio, per quella sottolineatura degli aspetti esteriori di esse. Rispetto al Saggio di storia della Ragioneria, di qualche anno prima, è opera completamente nuova e diversa 25.

Il Saggio, pur esso di notevoli dimensioni con le sue 443 pagine, era il frutto di una intensa e appassionata attività didattica, incominciata prima della guerra e ripresa immediatamente dopo il ritorno dalla prigionia, e, per la sua destinazione, non poteva non tener conto dello stato generale degli studi e di quelle esigenze di completezza, di unità, di uniformità, imprescindibili in un lavoro per la scuola, le quali poco possono concedere alla novità delle intuizioni brillanti o alla golosità delle scoperte di archivio. L'adesione alla impostazione del Besta e alla sua dottrina, soprattutto alla sua definizione teorica della partita doppia, era pressoché totale 26; ancora del tutto subordinata, rispetto alla trattatistica, la considerazione della pratica contabile 27; troppo scoperta la preoccupazione di non lasciare lacune e di creare difformità e squilibri con la storia generale, per cui, ad es., nella I parte, che dai primordi conduce il lettore fino al 1202, è assente la trattazione della ragioneria micenea, mentre è diffusa, a dispetto della sua scarsa importanza e novità, quella della ragioneria romana.

Da questo punto di vista, cioè della unità del discorso, la Storia è invece, al confronto, un'opera decisamente poco omogenea ed equilibrata: la contabilità della Grecia e di Roma occupa pochissime pagine 28; viene deliberatamente lasciata aperta la lacuna dei secoli della decadenza altomedievale, tanto che recentemente uno studioso ha inteso, lui, di doverla colmare 29: viceversa, le parti relative al mondo antico - Mesopotamia, Egitto e Creta 30 - e al basso Medioevo italiano 31 occupano uno spazio considerevole, 535 delle 800 pagine di un testo che va dalle origini della ragioneria al 1900, certamente sproporzionato per un trattato o un manuale, ma del tutto legittimo in un libro che, per il taglio prospettico, la consistenza e la novità dei contributi e delle scoperte documentarie, ambiva essere opera originale.

Balza evidente, dal duplice confronto tra il Saggio e la Storia, e tra le parti di questa, che il Melis nel 1950 intendeva soprattutto mettere in evidenza i risultati delle sue personali e originali ricerche, condotte su due aree geograficamente e cronologicamente ben individuate e distinte. Le due parti privilegiate nella Storia -l'antichità e il basso Medioevo italiano - finivano per costituire quasi due monografie a sé stanti, in cui si compendiavano non solo gli interessi che fino allora avevano animato il loro autore, ma anche le sue tendenze future: dei due settori, l'antico, era quello che lo aveva affascinato fin dagli esordi giovanili, e a cui già aveva dedicato un libro, ma l'altro, la Toscana bassomedievale, era il campo d'indagine a cui si sarebbe sempre più esclusivamente e completamente votato, legando a quella tematica la sua originalissima fisionomia di studioso e di storico, non più né soltanto della ragioneria. Osservare che condotta nella Storia, a partire dal 1494, la trattazione è esclusivamente sul piano della "letteratura contabile", senza nessuna attenzione per la prassi dei mercanti e dei ragionieri (che forse non sarebbe stata priva di interesse, almeno per i secoli XVI-XVII) significa rilevare un altro elemento di squilibrio; ma il libro ha pregi che nessun rilievo di contenuto e di proporzioni può intaccare. La Storia della Ragioneria è innanzi tutto un libro di storia, storia della cultura e della civiltà italiana dei secoli XIII-XV.

L'autore ne era consapevole; scriveva nell'introduzione: "Tracciare, adunque, la storia della ragioneria è, in certo senso, seguire la storia della civiltà, tanto le vicissitudini di quella sono condizionate e legate a molte altre manifestazioni dell'evoluzione della civiltà, soprattutto nel campo economico; 32. Era, del resto, il suo programma giovanile, di innovatore di questa disciplina, la meta che si era prefissa fin dal corso universitario del 1939-40. Ma per far questo erano necessari obiettivi e intendimenti metodologici che andassero oltre la semplice verifica - fatta all'interno dell'aritmetica contabile, settore particolare e circoscritto dell'economia - di quello che a lui appariva come il generale movimento della storia. E infatti, sempre nella introduzione del libro, aggiungeva: "La ragioneria, che è sorta spontaneamente, come conseguenza insopprimibile delle esigenze della vita, non solo rispecchia fedelmente le circostanze e l'ambiente che fecero da sfondo e crearono le sue singole forme: essa esercita, altresì, un'influenza nello svolgersi degli eventi ed ha, perciò, un ruolo, non soltanto passivo, di testimone, ma pure attivo, quale fattore, che, in concomitanza con gli altri - già riconosciuti - , contribuisce al costituirsi e al progredire della civiltà; 33. Viceversa, come rispecchiamento passivo e riflesso del più generale moto della cultura, la ragioneria era ancora concepita nel Saggio del 1946, dove l'autore, paradossalmente, proprio per uscire dai ristretti confini della sua specifica materia e aprirsi alle più vaste prospettive della storia culturale, finiva col precludersi la piena comprensione storica dei fenomeni contabili, nella loro autonomia e originalità.

Questo esempio mi sembra emblematico: per spiegare lo sviluppo degli studi ragionieristici del Quattrocento, e quanto di profondamente nuovo e innovativo essi significarono, Melis, nel Saggio, non trovava di meglio che agganciare questo specifico rinnovamento alle generali premesse umanistiche del Rinascimento, ponendo a fondamento dell'Umanesimo della ragioneria - la definizione era sua - la scoperta degli antichi codici e degli autori della classicità. "Con la riesumazione delle opere dell'età classica - scriveva - e specialmente di Cicerone e degli autori giuridici, che fornirono, se non proprio una teoria, una descrizione sommaria dei progrediti libri contabili romani, offrendo anche qualche guida indiretta sul loro funzionamento, gli amministratori di aziende del tardo Medioevo impararono a conoscere l'"Adversarium", dal quale derivò il memoriale, e molto probabilmente più avanti il giornale (...); e che nelle aziende private e pubbliche di maggior mole si sia avuta nozione e cognizione di dette opere non può esservi dubbio, sapendo che in alcuni principali centri umanistici esistevano molte di quelle aziende e soprattutto che avevano gran parte, in esse, illustri famiglie, veri focolai di erudizione e di studi classici (Medici, Barbarigo, ecc.); 34.

Così nel Saggio. Ma nella Storia della Ragioneria un siffatto argomentare viene completamente abbandonato; e se di questa pagina resta una qualche traccia, il contesto è assolutamente diverso: non che frutto di scoperte erudite, promosse dal mecenatismo di principi illuminati, le grandi conquiste della teorica e della dottrina del conto balzano fuori dalla pratica dei mercanti italiani e dalla straordinaria vitalità di quei secoli, XIII-XV, che videro la loro piena affermazione su tutti i mercati del mondo. E' qui la novità del discorso di Melis, il quale, già nelle giovanili lezioni universitarie aveva mostrato di volersi indirizzare verso una analisi dei fatti, che - diceva - per ogni scienza esistono prima delle teorie 35, onde, affrontando in questo spirito l'annoso problema della partita doppia, poteva affermare che "essa si è formata spontaneamente, e senza studi preliminari, nelle aziende mercantili e bancarie della seconda parte del Medio Evo, come conseguenza delle necessità amministrative derivanti dal continuo progredire dei traffici e dei commerci ...; 36; e così d'un colpo metteva fuori causa ogni fuorviante discussione su Luca Paciolo e qualsivoglia altro geniale inventore di essa.

Se tuttavia nel Saggio di storia della ragioneria egli era ancora tentato da interpretazioni del tipo di quella surriferita, gli è che alla prorompente e istintiva esigenza di mettere ogni discorso tecnico in una prospettiva di storia generale non corrispondevano sufficiente maturità critica e adeguati strumenti di analisi. Dell'una e degli altri, nel 1950, Melis era pienamente in possesso.

Da qualche anno egli aveva preso a scavare con crescente sistematicità negli archivi e nelle biblioteche toscane, e la dovizia dei libri contabili scoperti era tale che davanti a lui si apriva la strada per un discorso completamente nuovo, e non limitato alla sola ragioneria.

Nel 1948 era già in grado di recarsi al suo primo appuntamento internazionale - Parigi -, dove l'università di Roma lo inviava come relatore al Congresso Internazionale di Contabilità che vi si tenne dal 10 al 15 maggio di quell'anno. L'impressione di novità del suo discorso sulle fonti fu notevolissima, come ebbe a rilevare, in un intervento, la studiosa francese Y. Vinchon: "En ce qui concerne les sources, M. le Professeur Melis de Rome nous a fait toucher du doigt hier, et hélas, trop brievement, les richesses qu'elles constituent. Nous nous sommes trouvés en admiration devant le travail de chartiste qu'il fait, la maîtrise de la langue ancienne qu'il possède, qui lui a fait nous lire à livre ouvert les remarquables photografies de manuscrits qu'il possède; 37.
La "memoria" di Melis non comparve negli atti del congresso, ma, ampliata e redatta in lingua portoghese, fu pubblicata, a puntate, due anni dopo su una rivista brasiliana, con il titolo Partida Dobrada, Contabilidade dos Custos e Manuais de "Abaco" nas Origens do Capitalismo 38. Essa contiene, anche se in forma apodittica e schematica, alcune delle importanti novità della Storia della Ragioneria, ma è difficile dire esattamente, data la elaborazione parallela dei due lavori, quanta parte di quelle novità fosse stata realmente anticipata a Parigi. Di esempio e guida, in questo tipo di ricerche, gli erano state certamente le pagine della grande opera di Fabio Besta, ma rapidamente Melis era andato assai oltre il suo modello. Il Besta aveva avuto vivissima sensibilità per le dimensioni storiche dei fenomeni contabili, aveva nutrito il suo trattato di una ricca esemplificazione medievale, convinto che la teorica non potesse "avere base salda se non si fonda su larghe e coscienziose indagini di quanto avvenne e avviene nella vita reale delle aziende di ogni natura; 39. Di fatto però - e la cosa è tutt'altro che metodologicamente sbagliata - egli aveva anzitutto e preliminarmente messo a punto una sua teorica del conto, aveva definito il sistema delle scritture e il suo oggetto - il cosiddetto "fondo" - che per il maestro lombardo andava scomposto, com'è noto, nelle sue parti ideali e nei suoi componenti derivati. Se nell'analisi delle voci "dare" e "avere", e del loro insorgere. Besta aveva seguito dappresso le prime testimonianze storiche di esse, scrivendo pagine bellissime sul significato originario e proprio di quelle espressioni (che accennano inizialmente a un obbligo e a un diritto, e presuppongono quindi l'esistenza di una persona giuridica) per poi assumerne uno traslato e finalmente astratto 40, nel formulare invece il concetto di partita doppia egli aveva proceduto in maniera alquanto diversa. Aveva cioè definito prima le condizioni essenziali e necessarie di essa 41, per poi verificare sulle fonti il momento della sua apparizione e la sua diversa fenomenologia 42. Così facendo era però caduto nell'errore di respingere ogni manifestazione contabile che non entrasse perfettamente in quello schema. Ed anzi, nel corso della verifica storica e documentaria, aveva fatto, se si può dire, di peggio, alterando ed inquinando la limpidezza della primitiva impostazione teorica. Benché infatti nella definizione della partita doppia egli avesse chiaramente individuato la sua essenza nella presenza della duplice serie dei conti, accesi agli elementi patrimoniali, da una parte, e ai componenti derivati (vale a dire le variazioni del patrimonio, i profitti e le perdite, le spese, ecc.) dall'altra, con la costante eguaglianza tra la somma degli addebitamenti e quella degli accreditamenti, di fatto poi, nell'esame degli antichi libri contabili, aveva elevato a criterio di giudizio (e quindi di individuazione della partita doppia) elementi puramente formali e formalistici, quali la divisione laterale delle sezioni del conto, i richiami delle contropartite, l'unicità della moneta di conto 43.

Il Melis, proprio perché aderiva alla sostanza della dottrina del Besta, scorge chiaramente il residuo di formalismo che vi era rimasto, e ad esso attribuisce le conseguenti incertezze del maestro lombardo, e la sua difficoltà a penetrare e a valutare nella loro effettiva portata storica le testimonianze più antiche della scrittura contabile 44. Le stesse incertezze ed errori, conseguenti ad una impostazione metodologica oscillante, che avevano impedito ad un altro studioso della ragioneria, il belga-americano Raymond de Roover, di riscontrare nei libri contabili toscani della fine del XIII sec. e degli inizi del XIV (cioè anteriori alla data canonica del 1340) le prime sicure applicazioni della partita doppia, spingendolo a negarle recisamente, in una con altri egregi studiosi dell'argomento, anche dopo che la loro attestazione era stata ormai convincentemente affermata e documentata 45. A differenza del Besta e del De Roover, Melis evince dalla viva ricchezza della prassi mercantile, scrutata in tutte le sue pieghe, i caratteri sostanziali, e non le vuote forme, dell'aritmetica commerciale, ne segue l'evoluzione storica, fa di un principio teorico, assunto preliminarmente come criterio orientativo della ricerca - cioè la partita doppia nella migliore accezione del Besta - un vero e proprio canone interpretativo della realtà storica che, in quanto tale, deve essere consustanziale ad essa. Operando in questo modo, coglie il luogo in cui le nuove forme della rivoluzione contabile del secolo XIII vengono a coincidere con la nuova logica dell'agire economico; ed il nesso profondo che così si istituisce diventa il segreto motore del meccanismo produttivo corrispondente al nascente capitalismo.

Si leggano le splendide pagine dove vengono analizzati, e direi assaporati in tutta la loro pregnanza lessicale, i conti dei libri dei Peruzzi, dei Del Bene, dei Gallerani 46, e si guardi come in esse spontaneamente emerge, si enuclea e si stringe in vigorosa sintesi conclusiva, il senso della lunga riflessione critica di Melis e delle sue pazienti peregrinazioni tra le carte d'archivio.

"Che cosa avvertiamo - si domanda - in questo trattamento contabile dei fatti aziendali? Balza subito evidente che essi sono considerati sotto un duplice aspetto: da una parte, gli effetti provocati sui componenti di capitale; dall'altra l'effetto ultimo sul capitale stesso nella sua espressione univoca: è questo il principio fondamentale del metodo che sarà denominato "partita doppia". Si pongano bene occhi e mente a simili frasi: il capitalista deve avere per avanzi; il capitalista deve avere per guadagno, per utile di cambi, per tempo de' denari, ecc.; il capitalista deve dare per disavanzi; il capitalista ci deve dare per spese, per prode, per salari, che son quelle che più colpiscono per la profondità del significato, nelle pagine dense di scritture, dove - lo preannuncio - il metodo della partita doppia ha inalberato la sua bandiera. Sono le frasi che, da sole, affidano alla contabilità la prova - che solamente essa può emettere - dell'inizio dell'avanzata del capitalismo. Esse poggiano su tre capisaldi: l'intestazione all'imprenditore capitalista dei conti che per lui sono stati creati, il deve avere (o deve dare) e il vocabolo avanzi o simili (o disavanzi o simili). Si accostino, ora, i conti di capitale a questi ultimi: nel tenore delle loro proposizioni di apertura ed in molte altre di svolgimento, e nei principi, ai quali ubbidisce il loro funzionamento, si rinserra l'essenza del capitalismo: vi si esalta il dominio del capitale e per esso, dei capitalisti; vi sovrasta l'idea e l'ansia del guadagno; vi si coglie l'autonomia giuridica dell'impresa; vi si denuncia la dissociazione del capitale dal lavoro; vi si delinea la "singola forte personalità" dell'individuo; vi traspare la concezione quantitativa di tutti i fenomeni aziendali; vi si rispecchia il razionalismo economico; 47.

Ritorneremo su questa interpretazione del capitalismo e, al riguardo del nesso con la partita doppia, sui precedenti di questa intuizione che Melis aveva indubbiamente tratto dalla lettura di W. Sombart e di M. Weber. Qui preme sottolineare con forza come, a questo punto, il discorso iniziale della sua Storia della Ragioneria cessava di essere tecnico e ragionieristico, per investire in tutta la sua latitudine la storia economica. E tanto più estese e profonde erano le possibilità del Melis di penetrare dentro i fenomeni di questa, quanto più sicuro era il suo possesso degli strumenti contabili e ragionieristici. Lo storico, fornito di robusto e innato senso della storia, e il tecnico dell'aritmetica commerciale in lui si incontravano, ma con essi si incontrava anche l'esperto paleografo e il ricercatore di razza, in una sorta di particolarissima interdisciplinarietà consumata tutta nell'esperienza quotidiana della propria personale ricerca, la sola interdisciplinarietà che, a mio giudizio, sia veramente feconda.

Di questo esito scientifico non piccolo merito va al suo vecchio maestro, a Francesco della Penna, che in una lettera all'allievo già affermato, così scriveva: "seguo con vivo interesse la Sua ammirevole attività scientifica ed è superfluo dire, anzi ripeterle, che ne gioisco. Tanto più, in quanto rivendico a me il merito di aver scoperto in Lei lo "storico"; e aggiungo lo storico vero dell'Economia, perché è mia profonda e invincibile convinzione - e Lei me ne ha dato dimostrazione con la magnifica prolusione fatta a Pisa - che la storia economica delle famiglie, delle fraterne, delle società costituite, delle città, degli stati, dei popoli, si costituisce essenzialmente, se non quasi esclusivamente, sulla scrittura di conto; 48. E l'allievo, riconoscente, rispondeva che quella era appunto la "chiave" a cui doveva i risultati originali del suo lavoro, e che era stato lui, il maestro a mettergliela nelle mani 49.

Ma non tutti erano d'accordo su questo punto, neanche (o, forse, proprio) tra gli storici dell'economia. Corrado Barbagallo dopo aver letto la Storia della Ragioneria e la prolusione pisana di Melis su La scrittura contabile alla fonte della storia economica, così gli esprimeva netto e asciutto il suo giudizio: "permetta osservarLe che Lei esagera parecchio nel considerare le scritture contabili come "fonte principalissima" della storia economica. La storia economica è cosa assai più complessa e le scritture contabili sono molte volte uno strumento ingannevole al quale è preferibile una nota - non in cifre - di un diarista e di un cronista; 50. Affermazione sconcertante in uno storico dell'economia, e marxista per giunta, se non sapessimo come egli era approdato all'insegnamento di quella disciplina e, soprattutto, da quali matrici, idealistiche e romantiche, procedesse il suo pensiero 51. Il fatto è che Melis, con quella chiave, cominciava ad aprire una dopo l'altra una serie di porte che erano rimaste fin lì ermeticamente chiuse.

Ma per restare ancora un momento nel campo della storia della ragioneria da lui così ben dissodato, un risultato ormai acquisito e inconfutabile fu la retrodatazione, alla fine del sec. XIII, del consolidarsi della scrittura doppia, nonché l'affermazione, fatta per la prima volta dal Melis, delle sue origini toscane. Non era un modo per accreditare la Toscana di un altro primato; ciò che egli intendeva fare, era collegare quell'invenzione tecnologica al solo humus storico ed economico che aveva potuto renderla possibile. Tuttavia l'affetto per il natìo loco, e certo orgoglio toscano di cui Melis spesso circonfonde le sue argomentatissime tesi, può darsi abbiano suscitato in altri studiosi analoghi sentimenti o contrapposti risentimenti. Felice, per quella scoperta, fu il senese Sapori, incredulo e sospettoso il genovese Lopez, per nulla convinto il Luzzatto che ai suoi veneziani, riconosciuti come gli artefici dei più bei libri contabili del '400, dovesse venir tolta la palma di inventori della partita doppia. Le tesi consolidate dalla tradizione sono dure a morire, sì che, anche dopo il gran libro del Melis, chi tornò ad occuparsi del problema non volle tener conto di quanto egli aveva scritto 52.

L'opera peraltro ebbe più lodi che critiche 53, ma, favorevoli o meno, i recensori di essa non ne analizzarono a fondo i contenuti, né si soffermarono sugli aspetti veramente importanti: la controversia sulle origini - veneziane, lombarde, genovesi o toscane - della partita doppia, ne è una prova. L'unico scritto acutamente critico, e adeguato alla importanza del libro, fu quello che non vide mai la luce. Si tratta della presentazione che Armando Sapori avrebbe dovuto premettere al volume; vale la pena di soffermarcisi, anche perché appariranno subito chiare le ragioni della mancata pubblicazione. Nei suoi anni romani, e anche dopo, a Firenze, Melis aveva avuto rapporti frequenti e affettuosi con il Sapori, dal quale aveva ricevuto incoraggiamenti, e consigli non generici per il suo nuovo orientamento verso la storia economica 54; né del resto egli poteva restare indifferente al fascino di uno storico e di un uomo tanto ricco di sollecitazioni culturali, uno dei pochi che potesse a ragione essere chiamato "maestro" 55. Sapori accolse di buon grado l'invito a presentare il libro, e perché non si trattava di opera angustamente tecnica, bensì di largo respiro, e perché gli sembrava che essa muovesse dalle suggestioni che il suo stesso lavoro critico di editore di libri contabili del Medioevo aveva provocato. Il che si può certo accettare (e Melis era il primo a farlo), purché in un senso molto generale, non fino al punto di rivendicare e riportare a una ascendenza saporiana il discorso più tipicamente ragioneristico e autenticamente melisiano della Storia della Ragioneria. Cosa che appunto il Sapori fece, in uno scritto sconcertante, uno scritto che, a parte il macroscopico ma non involontario equivoco, è di una acutezza quale non si riscontra in nessuna discussione o recensione di quel libro.

Premesso che le pagine di Federigo Melis, che si aggiungono oggi - così scriveva il Sapori - muovono esse pure da quella mia suggestione;, egli così continuava: "Nel tentare di risalire al metodo [della partita doppia], a parte la disposizione delle partite di conto, la distinzione e la ripetizione dei conti in più registri, la persistenza del richiamo delle contropartite e via dicendo, feci [!] attenzione alla accensione dei conti al fine della considerazione analitica del capitale attraverso i vari elementi che lo compongono. Poi mi provai [!] a vedere se affiorasse l'idea del capitale in sé, univocamente considerato, seguendo le variazioni dei suoi componenti: le quali variazioni, allorché non si compensino, portano a una modificazione nel senso di incremento o decremento, risolvendosi alla fine, appunto nella perdita o nel profitto. Particolare rilievo ebbero per me [!] sotto questo aspetto i conti "avanzi" e "disavanzi". E seguii anche i conti aperti alle "vecchie" e alle "nuove compagnie" - tali nella continuità della vita aziendale nonostante la separazione di vari periodi caratterizzati dal "saldamento" - conti che ponevano in evidenza l'azienda attribuendole una personalità. Con tutto questo non ebbi l'ardire [?!] di addentrarmi in questioni specifiche, che ben sapevo altri avrebbe risolto con mezzi tecnici e con linguaggio tecnico più appropriati di quelli usati da me, che avanzavo piuttosto per intuizione, avendo lo scopo (...) unicamente di vedere se la rilevazione dei fenomeni aziendali nel Medio Evo, quale che fosse la forma delle registrazioni, rispondesse alle esigenze di imprese per le quali non avevo esitato ad usare la qualifica di capitaliste (...); 56. Era - né più né meno - quello che aveva fatto per primo il Melis 57. Quanto al Sapori, egli aveva pubblicato, certo con felicissima scelta, i libri contabili dei Peruzzi e dei Del Bene; ma, nell'analisi del metodo e delle forme della registrazione, era rimasto alla superficie della questione, accontentandosi di rilievi estrinseci, di carattere descrittivo; peggio, pur ipotizzando un nesso tra evoluzione economica ed evoluzione contabile, non si era reso conto che per l'impostazione e la soluzione del problema centrale - quello essenzialmente storico del capitalismo medievale - proprio gli straordinari conti "avanzi e disavanzi" da lui pubblicati offrivano, a chi sapesse leggere, la chiave 58.

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