pranzo medievale
Come bere il vino nel sistema dei cibi di Federigo Melis

In Atti della II Settimana dei vini tipici pregiati (Siena 15-23 Giugno 1968), Ente Autonomo Mostra-mercato nazionale dei vini tipici e pregiati, Siena 1968, pp. 61-81; ristampato in "Agricoltura delle Venezie", XXIII, 1969, pp. 137-160; e successivamente in F. MELIS, I vini italiani nel Medioevo, a. c. di A. AFFORTUNATI PARRINI, con introd. di Ch. Higault, Firenze 1984 (Istituto Internazionale di Storia Economica "E Datini", Opere sparse di Federigo Melis, 7), pp. 177-198.



(Tacuinum sanitatis, sec. XV, Fondazione B.IN.G.)

Signor Presidente, Eccellenza, Autorità, Signore e Signori,

sono veramente felice di essere chiamato a collaborare ai lavori della Settimana del vino (se così si può denominare), che si svolgono in questa Capitale vinicola d'Italia, e non soltanto d'Italia, su organizzazione del benemerito Ente presieduto dal Prof. Italo Cosmo, il Maestro dell'enologia di fama internazionale.

Però, mi sento tremare di debolezza ed, allo stesso tempo, fremere di impazienza: tremo, perché le mie forze sono troppo esigue in questo campo ed in ispecie al cospetto di Maestri così affermati; e fremo, nell'impaziente tentativo di soddisfare l'aspettativa Loro, che è stata resa ancora maggiore dalle benevoli presentazioni di oggi e di ieri (quella di ieri, da parte del Collega Pier Giovanni Garoglio).

Io sono un modesto dilettante, in materia. Il mio interesse per il vino - il gusto del quale, in me innato, mi è piaciuto di educare - si può riassumere nel termine oggi di moda: un hobby, che mi aiuta a "sollevarmi dalle sudate carte" della disciplina di mia specializzazione - la Storia economica - dalla quale ho, tuttavia, tratto qualche elemento alle mie indagini, alle mie riflessioni sui temi vitivinicoli: se non altro, poiché io localizzo i miei studi nel basso Medioevo, che è il periodo in cui rinasce il vino, così come rinascono tanti aspetti salienti dell'alimentazione. Si sono, infatti, formate, allora, delle classi ricche, che tengono molto, fra l'altro, a curare la mensa e, quindi, la preziosa bevanda che la integra; inoltre, massimamente a partire dalla fine del XIV secolo, si è ampliata notevolmente la circolazione verso il consumo dei vini di ogni qualità, in modo che se ne coglie un assortimento sempre più pronunciato, mentre prima - secondo la legge inesorabile nel quadro del movimento delle merci - non potevano circolare se non i beni ricchi. Il vino non era un bene ricco: per cui, anteriormente a tale epoca, soltanto i vini più pregiati - di alto tenore alcolico e di qualità superiore - erano idonei a sopportare l'aggravio del costo di trasporto, che, appunto, era rilevante. I vini italiani non circolavano che su brevissime distanze: ed è questa una delle ragioni onde la produzione del vino si è diffusa un po' dappertutto, sì da divenire sempre più vicina al consumo.

A seguito di una rivoluzione, beninteso di ordine economico, che si compie nel campo dei trasporti - con precedenza in quello della navigazione marittima - per la quale il trasporto stesso si apre, su qualsiasi itinerario, a tutte le merci, anche le più povere, riscontriamo sulla fine del Trecento che il movimento dei vini è incomparabilmente aumentato. E quel che interessa soprattutto noi italiani è la possibilità, che allora si realizza, di mandare i nostri vini anche in luoghi che già da tempo avevano assistito a larghe affermazioni dei vini francesi: nel Mare del Nord - nelle ricche città della Fiandra e dell'Inghilterra - e in Normandia, dove i vini francesi pervenivano, appunto, da assai più vicino. Da quell'epoca, i vini della Sicilia, della Calabria, della Campania, della Puglia, della Sardegna, della Liguria e di qualche zona minore si ritrovano spesso in quelle Nazioni, apportativi da navigli di ogni bandiera, per la via di Gibilterra. Di inciso, ricorderò che la "rivoluzione" richiamata è costituita dalla grandiosa riforma della struttura dei prezzi del trasporto marittimo: o, meglio, della formazione, finalmente, di una struttura - giacché antecedentemente non si poteva parlare di struttura, essendo i prezzi stessi estremamente rigidi - ispirata al principio della discriminazione dei prezzi, la quale contraddistingue la configurazione odierna di essi, in qualsiasi ramo delle comunicazioni (il principio, radicatosi in un primo tempo nel terreno dei trasporti marittimi, si diffuse gradatamente in quelli delle acque interne ed, infine, in quelli terrestri, divenendo generale assai prima della metà del Quattrocento).

E da questo studio ho appreso - direi risalendo il cammino del vino verso il consumo ed entrando nelle case del consumatore - qualche cosa inerente al consumo stesso, e precisamente riguardante il momento in cui il vino si avvicina ai cibi, per combinarsi con essi, armonicamente: cioè, secondo regole precise ed in maniera da formare un "sistema". Stando al significato generale, infatti, questa parola indica l'insieme di più elementi, che siano legati mediante regole fisse ed immutabili.

Ebbene, fra tali elementi - da un lato le vivande e dall'altro il vino - esiste veramente una composizione ad insieme, cui si può attribuire il nome di sistema: nel quale è proprio il vino che agisce da fattore di allacciamento, di coesione e di connessione. Così è avvenuto - come stavo accennando - fino dal Medioevo e tanto più ciò si verifica - e deve verificarsi - per l'epoca attuale, anche se in Italia è ben poco sviluppata una "educazione" vinicola, nei riflessi del consumo del vino (e non si creda che sia molto sviluppata altrove, se eccettuiamo la Francia; comunque, noi siamo uno dei Paesi più indietro sotto questo profilo).

Il vino deve essere abbinato convenientemente ai cibi ed è il vino che poi salda questi ultimi nella loro successione, rendendola più produttiva ed efficiente. Esso valorizza il cibo, ogni volta, ovviamente, che interviene in modo opportuno: esalta e rende marcati i caratteri salienti di ogni piatto e riesce a trattenerne più a lungo il gusto nella nostra bocca, che altrimenti sarebbe rapidamente addirittura alterato e annientato: qualche volta, anzi, questa alterazione perdura e si estende al vino stesso. Senza dire che il vino adattato al cibo, neutralizza tutto quanto o gran parte di quanto quest'ultimo rinserra di nocivo, facilitandone la digestione e l'assimilazione e lasciando indenni gli organi vitali del corpo umano.

Ma andiamo a vedere l'essenza di questo sistema: vale a dire i possibili accoppiamenti cibo-vino, che ci saranno suggeriti richiamando talvolta il cibo e tal'altra il vino, a seconda del corso della mia narrazione.

Da tempo si sono affermate delle regole precise, assolutamente invalicabili: diversamente non si realizzerebbe mai la composizione a sistema.

Alcune di tali regole sono di vasta portata e ormai abbastanza note: ma, ciò nonostante, io le richiamerò. Riguardano esse la presentazione oggettiva del vino, nel senso della sua preparazione per la nascita, indipendentemente dalle portate che dovrà animare.

Tutti conoscono la regola fondamentale della temperatura alla quale i vini devono essere serviti; ma aggiungerò qualche particolare. I vini bianchi esigono la presentazione fredda, differenziandola, tuttavia, a seconda della loro "vecchiaia", gradazione e bouquet. Essi devono essere tanto più freddi, quanto più sono pronunciati questi caratteri: un vino di 16 gradi alcolici e che abbia un'anzianità di oltre 4 anni deve scendere alla temperatura, addirittura di 6°-8°; un fragrante "Gewürztraminer" non esprime interamente il suo squisito aroma, se non è ben trattato in questa guisa, facendone oscillare la temperatura (a seconda dell'anzianità e della gradazione, ripeto) tra gli 8° ed i 12° (temperature un po' basse, dunque, per il sensibile concorso del fattore - che ho già sottolineato - rappresentato dalla vigoria aromatica).

In questa regola profonda agiscono delle regole minori: così, il raffreddamento non deve essere rapido, come troppo spesso si fa nei ristoranti, quando il vino viene presentato in un bel recipiente con il ghiaccio; né si deve affidarlo alle celle frigorifere più potenti. E, se il consumo non avviene, è bene metterlo in disparte: grave errore sarebbe lasciarlo nel frigorifero, come è costume di non pochi ristoranti, in attesa che arrivi il momento del consumo, sì che a volte vi rimane per settimane e settimane e finisce con l'essere servito quando ormai ha perduto i suoi attributi più considerevoli. Un saggio raffreddamento del vino è quello di sottoporvelo gradatamente, mettendolo in frigorifero almeno 6-8 ore prima dell'uso. Comunque, tra i due errori, che più frequentemente compie il ristoratore, è da preferire quello del raffreddamento rapido (con il ghiaccio, od altrimenti) alla giacenza prolungata nel frigorifero. Superfluo è, infine, rammentare che mai il ghiaccio può essere mescolato al vino, neppure a quello bianco.

È consigliabile stappare questi vini un po' prima della mescita: con anticipi di tempo tanto maggiori - anche per questa operazione - quanto più marcati sono i tre caratteri in questione; ma non superando i 30 minuti.

Ancora più importante e delicata è la predisposizione alla bibita dei vini rossi. E' risaputo che essi devono essere serviti a temperatura-ambiente; e subito annuncio la regola particolare, secondo cui tale temperatura deve essere vieppiù elevata, per i vini di corpo e di maggiore vecchiezza; così come deve esserne effettuata l'apertura molto prima che per i vini bianchi, giungendo finanche a 8 ore. L'ideale sarebbe che l'"ambientazione" si compisse almeno per 2 giorni, collocando il vino ad un calore crescente, fino al livello desiderato, che può toccare i 24 gradi: come richiesto per un "Barolo" tra gli 8 e i 10 anni, avendo cura di stapparlo almeno 6 ore prima del momento in cui esso diventerà... operante. E come i vini bianchi non devono essere lasciati indebolire e perdere le impronte più evidenti con prolungati indugi nel frigorifero, così i rossi non devono rimanere in ambienti dalle temperature dette poc'anzi: sarà bene rimetterli in cantina, in attesa che si presenti altra occasione di consumo. Continuando negli esempi, ne segnalerò uno imperniato su vini che si incontrano piuttosto raramente, soprattutto perché restano nell'ambito delle famiglie: i rossi della Sicilia sud-orientale - di Modica, di Vittoria, di Comiso, di Scicli, ecc. - che toccano i 18°-20° e che pervengono ad un invecchiamento di mezzo secolo: quando essi sono appena... trentenni, è opportuno mescerli dopo che hanno raggiunto una temperatura di 24° mantenendoveli almeno 3 giorni. Il prolungamento dell'"ambientazione" è consentito soltanto per questi esemplari eccezionali, non oltrepassando mai, comunque, i 3 giorni. La norma di escludere il rapido adeguamento della temperatura per i bianchi è ancora più imperiosa per i rossi: guai a metterli accanto ad una sorgente di calore o addirittura immergerli in un recipiente di acqua calda, come, purtroppo, ho constatato - e non una sola volta! - in qualche ristorante.

Per i vini rosati si deve fare distinzione: possono essere serviti freddi e tepidi (mi sia consentito quest'ultimo termine); ma senza raggiungere mai i bassi limiti dei bianchi e gli alti limiti dei rossi: il freddo, per questa classe, deve intendersi fra i 9° e i 13°; per gli altri, nell'intervallo 16°-20°. Le eccezioni per calcare la mano sul raffreddamento sono stabilite da alcuni rosati della terra che li produce più robusti (la Puglia): i quali quando non sono molto vecchi e superano la gradazione di 14, sono del più alto rendimento, anche se consumati al disotto della temperatura di 10°: così, quelli del Salento, di San Dònaci, il "Negramaro" tarantino e, più ancora, quelli - che sono poco conosciuti, non esistendo ancora delle aziende che ne accentrino produzioni abbondanti - della zona di Bitonto, la quale, diffondendo la cognizione di tali prodotti, diverrebbe forse più famosa di quanto già lo sia per il suo olio saporito e fragrante.

Per stabilire la temperatura dei vini rosati è decisivo il fattore che ci interessa proprio da presso, il piatto cui abbinarli: se a base di uova - cibo ideale per quasi tutti i rosati, con diversificazioni dovute, secondo quanto dirò più avanti, all'ingrediente immedesimato con l'uovo (come nelle frittate) - il freddo è quasi sempre sconsigliabile. Cercherò di essere più chiaro, scendendo sul terreno della pratica: un "Lagrein kretzer" del Bolzanese (ed in ispecie di Gries) - che è da comprendere fra i rosati, appunto - si deve bere fresco, se accompagna un antipasto o piatti freddi; ma sulle frittate leggere (fino al limite rappresentato dalla frittata con cipolle) esso deve essere servito sui 16°-18°. Con l'occasione, dirò che, sempre rima-nendo nel campo dei piatti con uova e principalmente delle frittate, quando si passa ad ingredienti più robusti, è raccomandabile un altro "Lagrein": il "dunkel", che si ottiene vinificando tutta in rosso l'uva dello stesso vitigno "Lagrein"; questo vino è rosso ed è, pertanto, da somministrare a temperatura ambiente. E fra questi due eccellenti e profumatissimi vini, per gli stessi piatti all'uovo, ma di... intensità intermedia, suggerisco l'accoppiamento con il "Malvasier", o Malvasia rossa, delle stesse zone (vino completamente distinto dalle Malvasie tradizionali, che riattaccano le loro radici alla Malvasia egea), il quale ha, appunto, caratteri intermedi tra quelli dei due "Lagrein" (al "Lagrein dunkel" è da assimilare il "Lagrein" trentino). Ma, quando si scende a simili sottigliezze, bisogna che i vini provengano dallo stesso produttore ed abbiano la stessa anzianità.

Essendomi addentrato nel rosato più originale e più fragrante - il suo profumo sembra riassumere quello di tutti i fiori delle praterie altoatesine - ne completerò il quadro, segnalando come questo "Lagrein kretzer", dopo 8-9 mesi, consegua di sovente un leggero frizzantino, che può consigliare di abbandonare il trattamento a freddo; è idoneo a sopportare un invecchiamento fino a 3-4 anni, richiedendo allora temperature di mescita anche sui 20°. La zona di produzione è limitatissima e, quindi, molto raramente lo troviamo sulle mense: con quella principale attorno a Gries, si hanno alcune "isole" a sud, a Ora ed a Cortaccia. Almeno sino ad oggi, però, abbiamo la certezza che si tratta sempre di una bevanda locale, senza integrazioni o finzioni, ammesso che se ne facciano ancora. Mi sia permesso di richiamare un produttore, dato che la sua attività rimonta per lo meno al XV secolo: è il Monastero benedettino di Gries, che ci offre anche un altro vino, il "Klosterleiten" - intitolato, dunque, al monastero - leggermente meno aromatico del precedente, ma più incisivo, il quale mi sembra l'ideale sulle frittate di cipolla e su alcune pietanze leggere con funghi.

Gli "sformati" domandano un comportamento analogo: in dipendenza, ossia, dei componenti principali.

Queste regole devono essere attentamente rispettate se si vuole che il vino si presenti sulla mensa, ed agisca, con tutti i suoi caratteri e pregi, i quali talvolta possono addirittura riuscire ad occultare qualche difetto; viceversa, se queste operazioni saranno trascurate, è facile che si appalesino vizi ed inconvenienti, da sollecitare il più pesante biasimo per coloro che, colpevoli per lo meno di leggerezza, li hanno così provocati. Un ristorante di vaglia non può fare a meno oggi - dico oggi, perché oggi il vino in bottiglia si sta largamente affermando in ogni Regione d'Italia - di un ambiente (basta una piccola stanza) con adatte apparecchiature per un misurato riscaldamento, il cui dosaggio si completa avendo cura di variare la permanenza dei diversi tipi in questa sorta di "camera a caldo", giacché alcuni si accontentano anche di 24 ore di tale "ambientamento", mentre altri ne possono esigere il triplo. Per il raffreddamento, il mezzo idoneo per eccellenza è il frigorifero; ma anche esso richiede accorgimenti e predisposizioni.

Considerato, fin qui, come i vini devono accostarsi e divenire operanti a tavola, mi addentro al nocciolo del problema: e cioè quali i cibi cui essi devono accompagnarsi e come, per assolvere i loro compiti.

Mi sembra di intravvedere due esigenze, diciamo, di insieme: una, localizzata nei vini, l'altra nei cibi.

La prima esigenza è quella secondo cui in un dato pranzo si vogliano far degustare certi vini: ed, allora, saranno i vini a chiamare ordinatamente, adeguatamente in causa i cibi. L'altra si identifica con il desiderio (o la necessità) di far conoscere specialità gastronomiche del luogo: le quali per esprimersi appieno determineranno - o devono determinare - la scelta dei vini convenienti.

In questa sorta di introduzione metodologica vi è un altro elemento notevole da rispettare: il limite di partenza ed il limite di arrivo, nella serie delle mescite, in fatto di gradazione: giacché impera una norma rigorosa onde, nel bere il vino, si deve sempre salire di gradi, mai tornare indietro; norma, rispettando la quale è possibile consu-mare più qualità di vini, anche in numero da sembrare impressionante: in uno stesso pranzo, si può arrivare persino a 15 tipi di vini, purché sempre accoppiati appropria-tamente alle pietanze. E' meno dannoso un pasto innaffiato con 15 vini, ben legati ai cibi, ripeto, piuttosto che un pasto condito con un solo vino, ma disadatto per la mag-gior parte dei cibi.

Ecco, quindi, l'altro problema, quando ci accostiamo ai diversi piatti: la gradazione del vino che deve esservi associato è sempre da tenere presente nel programmare l'intervento di essi, ché, altrimenti, si romperebbe quell'equilibrio, ed armonia onde ho sostenuto l'applicabilità del termine "sistema" dei cibi e dei vini -

Bisogna tener conto del punto di partenza e del punto di arrivo - come ho detto - giacché, se si deve iniziare con un piatto al quale sarebbe opportuno abbinare un vino di 13°, l'impegno diventa, poi, notevole per trovare gli altri vini, in ispecie se ne è stato messo in programma un numero di 15: si andrebbe a finire sui 18 gradi! Bisogna, pertanto, essere moderati nella gradazione di partenza, e, perciò, nella scelta dei primi piatti.

Qualora si segnasse, al contrario, un limite di arrivo piuttosto basso - ad esempio volendo concludere il pasto con uno spumante, anche di gradi 12 1/2, che è piuttosto raro incontrare - si dovrebbe cominciare da livelli molto modesti, che, per la folta schiera in considerazione, si aggirerebbero addirittura sui 9°. Neppure lo spumante, è ovvio, fa eccezione alla regola: quella, cioè, torno ad insistere, di non indietreggiare mai nel grado del vino; ed è per questo motivo che lo spumante collocato alla fine non sta mai bene, se la serie dei vini precedenti non culmina con un esemplare di grado ad esso inferiore. Lo spumante si colloca molto meglio all'inizio, per servirlo su particolari antipasti: ad esempio, come secondo bianco, quando la pietanza annovera limone od aceto, anche sotto una cappa di maionese (quale un'insalata russa). E, di inciso, faccio notare che lo spumante si adatta felicemente a far compagnia a tali piatti, perché essi normalmente sono freddi.

Ho così mostrato - seppure tanto affrettatamente - come sia il vino a chiamare in giuoco un cibo; e come un cibo faccia appello ad un certo tipo di vino e ne respinga altri. Aggiungerò - sempre rimanendo alla superficie e badando all'insieme - che in un pranzo di grande impegno se la considerazione è data con precedenza ad una certa concatenazione di cibi, che immancabilmente si vogliono fare apprezzare e godere, il reperimento dei vini ed il loro allacciamento ai singoli piatti (od a parti di essi, secondo quanto preciserò) è quanto mai delicato, ma non deve essere assolutamente trascurato, se si vuole avere una combinazione o, meglio, una composizione perfetta. Allorché, invece, fosse intendimento di presentare in un ordine comunque reputato opportuno, una gamma di vini, saranno essi a dettare legge ed a far leva sui cuochi, fino a talune sfumature di confezione e cottura: mi sia permesso di esemplificare con la mia mensa, nella quale quasi sem-pre do la precedenza ad un gruppo di vini che desidero di far conoscere ai commensali, ed a tal fine predispongo - sia pure modestamente e semplicemente - le pietanze.

Per questa specie di corrispondenza biunivoca tra gli elementi della serie-vini e quelli della serie-cibi può accadere che in qualche località si debba rinunciare alla degu-stazione dei vini del posto, o almeno di alcuni di essi, soprattutto di quelli correnti o "aperti" (per usare la traduzione letterale del termine francese e svizzero): i vini correnti di pregio, infatti, non sono di bassa gradazione nell'Italia meridionale e insulare (mentre è più facile trovarvi vini leggeri in bottiglia) e noi dobbiamo, così, rinunciare ad un bianco di 14°, magari adattato felicemente su un piatto forte di pesce, se non abbiamo in vista, per la prosecuzione dell'alimentazione, un rosso di pari corpo o superiore. Ma, come sempre, anche in questo ambito, una legge provvidenziale della natura ci viene in soccorso, in modo da soddisfare l'esigenza talvolta del vino e tal'altra del cibo: in moltissime località, il vino sembra fatto apposta per taluni piatti e viceversa. In questo caso, non è solo il vino che è caratterizzato dalla Regione, ma gli stessi piatti - manifestazione di sintesi della cucina locale - segnano un'analoga, genuina espressione: talché si può parlare più di correlazione che di semplice abbinamento.

Comunque, se noi ci mettiamo in movimento, è saggia norma conoscere i vini locali, accontentandoci magari di uno solo, purché, però, lo si possa degustare nel suo più riuscito accoppiamento: insomma, applicandolo sul piatto per il quale sembra essere nato. E di ogni paese bisogna praticare anche i vini correnti - anzi, specialmente quelli - per conoscere a fondo la produzione, in tutte le sue classi ed in tutte le sue possibilità (da essi ultimi, derivano e si riconoscono le condizioni per l'ulteriore valorizzazione, con l'invecchiamento ed altre operazioni).

Comunque, io mi riferirò principalmente ai vini in bottiglia, perché sono i vini che possono circolare di più e che si possono tenere in qualsiasi posto: infatti, la mia conversazione vuole rimandare ad un sistema, che trovi realizzazione in ogni zona d'Italia, "trasportandovi" via via i vini occorrenti per rispettare le prescrizioni dell'aggregazione sistematica.

Passiamo adesso ad alcune regole, da potersi chiamare parziali od interne.

Notissima quella, per la quale i cibi, nelle loro due grandi classi, provocano una demarcazione dei vini: la classe dei pesci e la classe delle carni, da cui promana la distinzione in vini bianchi, da applicare nella prima, ed in vini rossi, per l'altra. Tutto giusto: nondimeno, vi sono delle eccezioni e quel che è sempre da tenere presente è anche il diverso modo di cottura e massimamente gli ingredienti impiegati, i quali, qualche volta, arrivano a capovolgere le "regolette", che pur sembrano ben solide. Ad esempio, una orata arrosto non è uguale in tutta Italia: in Toscana, la si tratta con il ramerino; in Campania, invece la si conclude con un bagno di aceto; in Sardegna, se ne alimenta la cottura con acqua salata. Ecco i due fattori - procedimento di cottura ed ingredienti impiegati - che effettuano una differenziazione nei vini.

Uno dei campi nei quali l'adozione del vino si presenta molto difficile è quello delle pietanze elaborate con l'aceto. Qualche anno fa, ascoltando una conferenza nella Penisola iberica, appresi che il problema non era stato ancora risolto. Ma, viaggiando, come ho fatto in tutta la mia vita e non soltanto per alimentare i miei studi di storia, mi sembra di essere riuscito a risolvere il problema, con la continua ed assidua esperimentazione. Ero già sulla via di un giudizio definitivo; ma la sanzione mi fu offerta in una trattoria di Chieri (Torino) dove una "Freisa" perfetta - e, naturalmente, giovane - con la spuma moderata e con tutto il suo profumo tipico, ha retto benissimo l'accoppiamento con il pesce carpionato - pesce d'acqua dolce, cioè del posto - che è cucinato in maniera eccellente in quella Regione, come in Lombardia e altrove. Ho ripetuto l'esperimento con il "Nebiolo" - nelle stesse condizioni (anche di temperatura, che non deve superare i l6°... a quell'età) - e, passato in Lombardia, mi sono avvalso dei vini frizzanti dell'Oltrepò pavese - il "Barbacarlo", il "Sangue di Giuda" ed anche il "Buttafuoco" - mai dolci, è evidente, che pure hanno detto un "sì" pieno a tale abbinamento.

Ed è tanta la forza... di persuasione del vino rosso friz-zante sull'ingrediente aceto, da essere risultato valido l'accoppiamento persino sull'orata - pesce di mare - alla maniera campana, che ho rammentato: e il vino è - deve essere - quello del posto, cioè, lo squisito "Gragnano", che si produce là dove si stacca la Penisola sorrentina.

Ecco, dunque, una delle eccezioni del vino bianco, che abbandona il pesce per lasciare il posto al vino rosso (un'altra eccezione è rappresentata dal brodetto di pesce più "carico" - il cacciucco - che predilige vini toscani rossi, forti ma giovani; rossi sempre, ma più leggeri, si inquadrano felicemente nei più moderati piatti del genere, quelli delle Marche e Abruzzo; all'affine zuppa di pesce, se molto doviziosa, si accoppia pure un rosso deli-cato, ma mi sembra più azzeccato un bianco di corpo e un po' "tondo").

Ripeto che deve trattarsi di vini frizzanti, anche di un certo tenore alcolico; ma serve bene allo scopo pure un "Lambrusco", specialmente se proveniente dalle zone che lo producono un po' più robusto, come lo troviamo a Carpi.

E, se la riuscita è piena con i più delicati piatti di pesce, a maggior ragione lo è su altri piatti manipolati con l'aceto: ad esempio, consumando un arrosto di carne - anche una bistecca alla fiorentina - accompagnato con un Chianti, se, sul finire, ci rinfreschiamo con un'insalata ben acetata, è conveniente passare ad un Nebiolo alla maniera anzidetta, che sia leggermente superiore di gradi al previo vino, secondo i principi tra i più inderogabili del saggio bere.

Poiché dianzi ho richiamato lo spumante bianco, per lo stadio acetato o limonato dell'antipasto, mi sembra di poter concludere che tutti i piatti aspri in tal guisa vengono ampiamente soddisfatti dai vini frizzanti, bianchi e rossi; ma a condizione che essi siano a fermentazione naturale. L'alto pregio e le inesauribili risorse di uno "Champagne" - ma io mi riferisco a quello realizzato in Italia (e lo dico, infatti, "spumante"), dove se ne produce ormai in maniera eccellente (e approfitto per segnalare esemplari: il superbo "Pinot" della Franciacorta bresciana) - sopportano benissimo, integrandolo felicemente, un piatto dalle suaccennate caratteristiche e per giunta alla maionese.

Ho aperto il tema pesce sull'orata arrosto e l'ho sviluppato soltanto - in questo esame della funzione dei vini frizzanti e delle parallele esigenze dei piatti acetati - attorno all'orata di Napoli ed in genere della Campania. Per quella cotta al modo sardo, non ci sono che i vini tondi di quell'Isola a valorizzarla ed esaltarla, specialmente se serviti molto freddi e di gradazione non inferiore a 13°. Se l'arrosto è realizzato con il ramerino, secondo le regole che impone questo ingrediente la gradazione deve subire un'impennata: ci vogliono dei bianchi piuttosto forti e molto freddi, anche un po' "tondi" come sono alcuni esemplari delle Colline pisane (così il bianco di Chianni); ma vi sta bene pure qualche vino aspro, purché di corpo.

Così facendo, il retrogusto del vino permane e si fissa meglio ad ogni bevuta, che si alterna all'ingerimento del cibo; allo stesso tempo, il vino dà risalto agli elementi essenziali e più gustosi del cibo, quasi quasi scacciando tutto quanto vi è di superfluo e rendendo, per così dire, puri il sapore ed il gusto fondamentali del cibo stesso.

E non sembri esagerazione la mia, se sostengo che il vino appropriatamente applicato, elimina quella tossicità che ha ogni cibo (seppure limitatissima) persino nell'ambito di una dieta rigorosamente "bianca".

Il banco di prova del vino, sotto questo profilo, si ha nell'adattamento dei vini sui piatti dai quali oggi si rifugge: i piatti a base di uova, segnatamente se a frittate: piatti che oggi si tengono per lo meno a distanza, l'uovo preoccupando per la sua azione sul fegato e per... l'incremento del colesterolo. Ebbene, il vino giustamente adottato, può fare sparire in gran parte - se non totalmente - l'effetto tossico dell'uovo e delle materie impiegate per confezionarlo, sino ai gravi e ben più pesanti residui dell'operazio-ne di frittura.

Per l'uovo vi è una gran varietà di vini, a seconda di come esso viene ammannito. Un vino certamente tra i più indicati in materia è il rosé; ma, come ho già lasciato intendere, i rosati sono diversissimi, per tipi, gradi ed anzianità alla quale possono pervenire: diversità, che devono essere conosciute, proprio in funzione della possibilità di soddisfare le pretese di un tal cibo. Anche qui vale la norma per cui la maggiore incisività e potenza dell'ingrediente richiede vini progredienti di gradazione, sapore e vecchiaia. Sulle frittate leggere sono adatti anche i vini bianchi, come è facile intendere; ma è bene non servirli molto freddi, anche se sono piuttosto fragranti e di corpo (è un'altra delle tante eccezioni, che via via si appalesano, pur innestandosi in regole fondamentali). Così su una frittata di zucchine o di piselli o di carciofi (carciofi non fritti, cioè, escludendo il tortino di carciofi alla toscana) stanno assai bene i bianchi alto-atesini (ad esempio, un buon "Terlano") e del Veneto, fino ad arrivare al Friuli, con il "Tocai" (specialmente un po' invecchiato, quando il colore si fa più scuro e ad una temperatura sui 14°, come tanto felicemente risponde quello di Buttrio). Molto bene ho trovato l'abbinamento con i bianchi dell'Oltrepò, spe-cialmente l'aromatico "Muller Thurgau" del Montelio.

Una frittata forte con grossi pezzi di prosciutto e piccante ci fa passare verso i rossi di corpo e qui ricordo l'esemplare della famiglia "Lagrein", il "dunkel"; ma vanno bene tanti vini dei luoghi dove queste frittate vengono molto apprezzate e sono quasi di moda (in varie zone d'Italia).

Se si insiste ancora nell'intensità e densità della sostanza di questi piatti, con il punto tra i più elevati, immettendovi abbondantemente i funghi, non può esservi che il vino rosso: e riesce molto meglio quello dei luoghi produttori di funghi, alla stessa maniera onde si ha il legame con il fungo puro realizzato in vario modo. Nulla vi è di meglio di un "Marzemino" e di un "Teroldego" del Trentino (purtroppo il vitigno che dà questo meraviglioso vino sta scomparendo!), per i funghi cucinati sul posto e per frittate ai funghi; così, i vini della Valtellina; i Chianti di più forte gradazione e un po' anziani (compreso un San Gennaro o un Montecarlo rosso della Lucchesia o un Colline pisane); un "Rossese" di Dolceacqua; quasi tutti i vini piemontesi; un "Cecubo" di Formia od un "Falerno" rosso di Mondragone; un "Aglianico" del suo originario luogo italico (la Lucania) o anche un altro dell'Avellinese, come il "Taurasi"; un "Torre Quarto" della Puglia; un "Cirò" della Calabria e così di seguito. In tutte le Regioni d'Italia ci sono vini che servono assai bene i funghi, perché questo è, infatti, un piatto che ovunque si ritrova e si apprezza.

Il punto è sempre lo stesso: il vino deve valorizzare il cibo e viceversa. E mi piace di ripetere che, bevendo sui piatti all'uovo vini così adatti, si sente un gusto particolare, che non è il sapore dell'uovo, ma l'esaltazione di quanto con l'uovo è amalgamato; perfino il grasso fitto scompare, tutto diventando più leggero, assimilabile e nutriente.

Trattando il particolare tanto più vasto del pesce, l'argomento mi ha portato a varie derivazioni. Il pesce richiede, bensì, vino bianco; ma bisogna distinguere fra pesce "leggero" e pesce "forte", con i loro moltiplicatori rap-presentati dagli ingredienti e dal tipo di cottura. Un anti-pasto che si serve in Liguria, quello dei bianchetti, bolliti con poco olio (e sottile) e limone, richiede un vino leggero e non pretende grande impegno (un "Vermentino", un "Coronata", un "S. Margherita" e un "Cinque terre", giovani); mentre, se abbiamo un pesce un po' più forte, un pesce un po' più grosso e grasso, allora, ecco un impegno ben maggiore per il vino, che si esprime nuovamente con l'ascesa dei gradi. Insomma, si ripete la regola secondo cui tanto più il pesce è forte, sostanzioso (e vi concorrono i condimenti interni ed esterni, come ho sottolineato poco fa), tanto più debbono essere forti i vini con i quali accompagnarlo; ed, anzi, salendo di gradi, bisogna che il vino sia anche "tondo", cioè, non aspro, e più aromatico. Il vino asprigno è richiesto dal pesce quando è un po' più grasso - l'esempio è quello del muggine, che non è l'unico, tuttavia - specialmente se bollito. Passando all'arrosto - che ... rinforza il pesce stesso - ecco la necessità di fare intervenire di norma i vini tondi: ed allora intervengono soprattutto quelli dell'Italia meridionale ed insulare, assieme a quelli laziali (dei Castelli Romani, non del Viterbese). Per le fritture di pesce è indispensabile il bianco, salendo nei gradi ed anzianità, secondo la "sostanziosità" del piatto. Il vino di Orvieto, leggermente invecchiato, è quanto mai versatile su questo terreno e precipuamente sui filetti di persico dorati ed altri pesci dei laghi dell'Italia centrale.

I vini bianchi "tondi" stanno bene sui piatti un po' aspri: come le pastasciutte con sugo di pomodoro freschissimo, leggermente acidulo. Così, appunto, i vini dei Castelli Romani, che sono tra i più "tondi" d'Italia, spe-cialmente adesso che la situazione è un po' cambiata, essendosi estesa la viticoltura in quella fascia di territorio prima incolta, fra i Castelli ed il Mare di Nettuno. Vi è, inoltre, da tener presente che, dopo le gravissime falcidie operate dalla filossera, si è proceduto ad un completo rinnovamento delle viti (fra l'altro, sono quasi scomparsi i vini rossi, che, specialmente a Marino e ad Albano, erano di gran vaglia); e le acquisizioni dell'anzidetta regione interna - la si vede assai bene percorrendola con la ferrovia Roma-Napoli, dove siamo piacevolmente attratti dallo spettacolo dei filari di viti, che sull'ondulato terreno si estendono, perfettamente ordinati e curati, verso Anzio e Nettuno - presentano, a ben guardare, più i caratteri dei vini del "padiglione" (cioè, di Nettuno), che quelli della vecchia produzione dei Castelli, così come da quest'ultima si differenziano, seppure più leggermente, i vini dall'altro lato della fascia dei Castelli, cioè da Montecompatri in là. Ma ora, queste diverse fasce sono unificate e tutta la produzione è considerata vino dei Castelli salvo quella che gravita su Aprilia. Forse sarebbe bene ridare autonomia alla zona di Nettuno.

Il vino di questa località è particolarmente tondo e serve a meraviglia un piatto di spaghetti alla "amatriciana", dal sugo forte, aspro, gustosissimo, reso ancor più aspro dal famoso pecorino romano "pizzichino" (o "pizzi-cante", o "pizzicorino").

Per questo piatto vi è anche un vino, leggermente differente dal nettunese, ma con un fondo abbastanza "tondo", per abbinarsi forse ancora più efficacemente al piatto, che, appunto, prende il nome dalla celebre cittadi-na - Amatrice - situata nel cuore dell'Appennino, in quella porzione d'Abruzzo che dal 1927 è stata aggregata al Lazio: alludo al "trebbiano" abruzzese ed in ispecie a quello di Pratola Peligna, che ci richiama la regola secondo la quale i piatti di un paese ritrovano sempre nel posto il vino ideale.

Tuttora in tema di abbinamento del vino con i piatti aspri, il vino tondo della Sardegna si appaia molto bene ai "maloreddus", gnocchetti freschi che si condiscono con una salsa molto aspra, anch'essa resa tale ancor più dal pecorino piccante dell'Isola.

Tornando al pesce, insisto che bisogna porre attenzione al tipo, alla qualità e al modo come è cucinato. Per esempio, in un assortimento di due o tre pesci bolliti, nel passaggio dall'un tipo all'altro, sarebbe opportuno cambiare vino (sempre che se ne abbia la possibilità e disponibilità, naturalmente!). Nel caso di una spigola (o branzino) bollita, vivificata ed integrata ad un "Terlano" (come quello, che mi sembra perfetto, della Cantina Sociale di tale cittadina), il successivo intervento di un'orata (pure bollita) dovrebbe richiamare il concorso di un "Gewürztraminer" o quello che sta tra i primi dieci bianchi italiani, il "Sauvignon" della stessa Cantina Sociale (mutando vino nell'ambito dello stesso piatto, affinché le differenze non siano troppo marcate, è indispensabile rimanere aderenti alla stessa fonte di produzione e stessa annata).

In questo esempio, pur trovandoci ad operare sul medesimo piatto, si tratta di pezzi di pesce differente, che costituiscono, perciò, altrettante pietanze: ma il cambiamento del vino può essere necessario proprio sulla stessa pietanza. Prendiamo il pollo, specialmente quando l'"unità di pietanza" è più evidente, cioè allorché esso viene servito abbondantemente, per una metà: se è arro-sto, avendo noi bevuto un "Merlot" sul petto, nel passare alla coscia bisogna fare intervenire un "Cabernet", ambedue i vini dello stesso ceppo di luogo e di tempo; oppure, rispettivamente, un "Barbaresco" ed un "Barolo"; od anche un "Lago di Caldaro" e un "Blauburgunder" (il nome che assume il "Pinot nero" in Alto Adige). Si può fare la distinzione del vino anche nella sfera dello stesso tipo, introducendo, a conclusione, un esemplare più vecchio e che sia leggermente più forte. Qualora il pollo fosse bollito, e, perciò, accompagnato con un vino bianco, suggerirei un mutamento come quello che ho ricordato per il pesce, partendo anche da un "Weissburgunder" (vale a dire, il "Pinot bianco"), per salire al ben più aromatico "Traminer" o al "Sauvignon", già rammentato. Un passaggio felice sarebbe quello dal Pinot "bianco" a quello "grigio" (il "Ruländer" della terminologia germanica) quando essi avessero caratteri tali da permetterne una simile successione, dato che normalmente non si trovano nello stesso luogo (o almeno presso lo stesso produttore). Ci vuole, pertanto, una profonda conoscenza da parte di colui che dovrà fare così delicata scelta.

L'intervento del "Barbaresco" - che sta su un tono di corpo e di vecchiaia più alti del Merlot - è consigliabile - seguito, poi, dal Barolo - su piatti più forti, in quella stessa condizione: così, sul fagiano.

L'avere ricordato il pollo ed in genere le carni affini, mi richiama alla mente il vino che sembra nato per essi: è questo il "Chianti", il quale serve a meraviglia qualsiasi piatto di pollo, tanto più essendo un vino estremamente duttile e malleabile, date le diversificazioni che, pur sotto l'apparente unicità di appellativo, compiono inesorabilmente i terreni, oltre a quel fattore che opera su tutte le produzioni, ossia, l'anzianità. Per queste ragioni, il Chianti è un vino molto variato - senza con ciò volere dis-sociare nettamente dagli esemplari di "Chianti classico" quelli dalle denominazioni aggiuntive e differenzianti - e come tale idoneo a soddisfare tutte le esigenze di accoppiamenti proprie dei vini rossi e fino a quelli di dettaglio nel cerchio di un medesimo piatto, come, per l'appunto, per il pollo. E dirò di più: che vi sono alcune espressioni del Chianti - quando è più leggero e "chiarellino" e giovane - che addirittura soppiantano il bianco, per accompagnare validamente un mezzo pollo bollito, nei suoi due componenti essenziali (petto e coscia), effettuando la "distinzione" col salire di un... gradino in gradazione o anzianità.

Parlare delle possibilità - inesauribili, appunto - del Chianti, vorrebbe dire occupare un tempo lunghissimo: e, d'altronde, essendo noi in Toscana è preferibile ricollegarci alle produzioni delle altre regioni, che da noi, infatti, sono meno conosciute.

Ma, una volta che sono entrato in Toscana, mi sembra opportuno sottolineare che nella Regione vi sono tanti vini non raccolti sotto il nome di "Chianti", eppur meritevoli della massima considerazione, anche perché molti di essi hanno un'antichissima reputazione (il loro apprezzato e diffuso consumo risale almeno al '300) e si impongono egregiamente per convenienti "accoppiamenti": mi limiterò a segnalare i rossi di "Montecarlo" (anche se finora ne è più conosciuto il "bianco") e il "nobile" di Montepulciano, per la caccia (il primo, specialmente per il tordo). Sono molti e nettamente tipicizzati questi vini che si dispongono alla periferia della Regione - come facendo corona al vino dal nome più generalizzato e dalla larghissima produzione - e per i quali io proporrei il nome di "vini minori della Toscana", senza che tale aggettivo abbia alcun riferimento alla qualità, ma soltanto, come si usa fare in simile terminologia, alle misure quantitative (in questo caso, alla minore estensione dei vigneti e quindi al minore getto di liquido).

I piatti di carne sono quelli più facili a seguire e soddisfare: giacché la gamma dei vini rossi - che normalmente vi si riconnette - è assai più assortita, senza dire che nell'ambito di ciascun tipo vi è una maggiore uniformità, a meno che non si facciano salti territoriali eccessivi (i "Merlot", ad esempio, delle zone attorno al Piave e ad Est fino al Collio sono fra loro abbastanza simili; ma non così constatiamo per quelli trentini, lombardi, romagnoli e adesso anche laziali, ad Aprilia).

Si ripresenta, su questo terreno, la regola per la quale quanto più una pietanza è forte, tanto più marcata deve essere la gradazione e l'anzianità del vino da affiancare. Sulle carni di vitello, carni giovani, si bevono vini leggeri e giovani: e ciò malgrado che le carni giovani, essendo quelle più difficili a digerirsi, richiederebbero vini forti, i quali - tra le altre prerogative - hanno la funzione di agevolare la digestione. Vi si adattano molto bene anche i vini frizzanti, fra cui il "Lambrusco", e specialmente un vino - pure emiliano, ma che trovandosi ai confini occidentali della Regione, riveste piuttosto i caratteri del finitimo Oltrepò pavese - che si è imposto in tempi recenti: il "Gutturnio", ideale per gli arrosti leggeri ed il quale permette il contemporaneo consumo del contorno di insalata all'aceto.

Per i piatti in umido, bisogna fare distinzione fra i sughi meno e più "ristretti", che richiedono l'applicazione della regola dianzi accennata. Negli stracotti, a parte gli accoppiamenti felici con i vini locali, piuttosto robusti e non molto giovani, ho constatato che un legame perfetto è quello con i vini della "Via dello Spanna" - quella strada da Novara al Sesia (e quindi a Gattinara), in cui si affacciano colline ridenti di paesi che danno nome ai propri vini: Fara, Sizzano, Ghemme - e poi il "Valpolicella", il "Chianti" ed il "Rossese", con tanti altri, compresi quelli dalle espressioni più elevate, nella gradazione, nell'anzianità e nel profumo. E non bisogna dimenticare gli ingredienti - come al solito - che possono avere grande rilevanza, ad esempio nel ripieno degli involtini di carne (patata, carciofo, formaggio, salame ed altri insaccati), che se è piuttosto saporoso, impone vini più robusti ancora.

Per i piatti di fritto - la cotoletta alla milanese, per intenderci - due serie di vini sembrano quasi insuperabili: un "Clastidio", ma anche un "Barbera" dell'Oltrepò e meglio ancora un "Bonarda"; ed i tre rossi della Valtellina. Ma vi vedo molto bene anche i vini aspri (come del resto sono il "Bonarda" e il "Barbera" adesso richiamati), quali il "Raboso veronese", di produzione del Piave e anche del Tagliamento. Nella frittura di frattaglie - cervello, animelle, fegato ed altri componenti per il "fritto all'italiana" - può andar bene anche un rosato un po' forte e non freddo; ma sono ancora più indicati taluni frizzanti nobilissimi - quelli del Piemonte: Nebiolo, Grignolino e Freisa - l'umbro "Rubesco", il "Merlot" meno anziano, un "Cerasuolo d'Abruzzo", un "Piceno" e via di seguito.

Per gli arrosti di capretto direi che è sempre felice l'accoppiamento con il vino del posto - generalmente giovane e "aperto" - come la prova che ci viene fornita da Castel San Pietro, che così valorizza pienamente il suo eccellente "Sauvignon" rosso.

Mi piace ricordare un piatto di carne piuttosto raro, il quale, pur recando il nome di "vitello alla genovese" è, invece, una realizzazione campana (con un appropriato ingrediente cipollino), senza sughi rossi: come spesso accade, a meraviglia si uniscono ad esso i vini locali, quale il "Solopaca" ed il "Taurasi" e fino all'"Epomeo" di Ischia.

Per la carne di suino, bisogna distinguere i diversi modi di confezione: le bracioline arrosto, specialmente se guarnite da rapini o altre verdure in padella, si accompagnano bene a rossi leggeri e medi; per il maiale in umido, a sugo molto ristretto e robusto, i vini più maturi stanno molto meglio; infine, sugli insaccati (cotechino e zampo-ne), oltre il "Lambrusco" ed il "Sangiovese" giovane, trovo efficacissimo l'intervento ordinato - nel quadro dei bolliti in cui normalmente si fanno rientrare, e, cioè, dopo i bianchi o rosati leggeri sui bolliti di pollo (ne ho fatto cenno) e poi di manzo (quando si dovrebbe salire immancabilmente ad un rosato) - di rosati più forti ed anche di qualche rosso giovane o qualche frizzante di maggior corpo (dal "Gatturnio" al "Nebiolo"). La regola per i rosati, in questi piatti - che, infatti, sono caldi - è di scegliere i tipi che rendono maggiormente se serviti a temperatura ambiente: e torno a richiamare la felicissima serie di Gries, quella, cioè, del "Lagrein kretzer", "Malvasier" e "Lagrein dunkel", accompagnamento che ha pochi rivali nel trio dei bolliti or ora rammentati. Se, con questa portata, si arrivasse ad un rosso, che dovrebbe essere leggero e giovane, esso lascerebbe aperte le possibilità ad ulteriori slanci per l'introduzione degli arrosti.

Sono così ritornato a parlare dei bolliti e per concludere - e sui bolliti stessi e su tutte le portate di carne - ricorderò che bisogna considerare in quale momento noi piazziamo tale piatto: se si inserisce dopo un antipasto o pastasciutte o risotti, esso ha già esaurito una certa gamma di vini bianchi e, forse, di rosati: ed, allora, siamo costretti a spostarci verso i gradini più alti della scala che io ho formato; includendovi bianchi, rosati e rossi; vuoi dire che salirà, poi, il livello dei rossi da introdurre sui successivi piatti di carne.

Raccogliamoci adesso sulla conclusione del pranzo - ed io, infatti, sto concludendo la presentazione... teorica - per considerare i vini opportuni su un piatto atteso in quel momento: il formaggio. Anche per questo cibo, bisogna tener presente la sua diversa condizione, in tutti i sensi (se leggero o forte e piccante); ma sempre in funzione della imprenscindibile base raggiunta allora, che potrebbe essere anche localizzata sui 13°-14° alcolici e di "età" piuttosto avanzata. Consumando un formaggio meno impegnativo, si può continuare con una lieve maggiorazione in quel canale di alcolicità e anzianità; ma con un formaggio robusto e piccante, non si può prescindere dal far subire ai vini una certa impennata nei gradi, ed allora suggerisco di mescere anche un vino giovane, ma con un pronunciato distacco di gradi: ad esempio un "Capoferrato" di Sardegna, od un "Threntum"; senza dire che se si avesse a disposizione un vino di imbottigliamento personale sui 18°, come quelli di Barletta - tanto per fare un esempio, fra i molti che potrei citare - la soluzione sarebbe ancora più felice.

Ho così segnalato un'altra esigenza, che è propria della fase finale di questo nostro impegno: allora, quando si è esaurito anche l'incremento dell'anzianità dei vini o esso è molto spinto, per passare ad un vino più giovane bisogna che il rialzo dei gradi sia piuttosto sensibile.

Non è escluso che si possa completare la serie anche con un vino bianco: a parte la Vernaccia sarda, quando si è giunti alla frutta, un "Aghiloia" - tipo particolare di ver-mentino, che è un vitigno proveniente dalla Liguria medievale, attecchito molto bene nella Sardegna settentrionale, a Monti - con i suoi 16° circa, andrebbe benissimo su frutta cotta ed anche fresca, senza dire dei dolci. Ed, infine, si potrebbe dare il via ad un vino da dessert, di cui non mi devo occupare. Avendo richiamato questo prodotto di Monti, ritengo opportuno indicarne l'accoppiamento su un piatto di pesce: su un'aragosta arrosto, particolarmente se servita con un contorno di risotto sulle cozze, alla maniera portoghese.

Abbiamo visto i vari anelli - ciascuno composto dal binomio cibo-vino (quest'ultimo ripresentandosi anche due volte con il primo termine) - della catena degli elementi del nostro pranzo ipotetico. Per facilitare il passag-gio da un vino all'altro, anzi per fare intervenire ulteriori vini, sarebbe saggia norma quella dell'impiego di piatti intermedi, sempre coerentemente agli elementi della catena stessa. Ad esempio, un "intermedio" ideale è quello del carciofo, per il quale si impone la solita gradazione sul modo di cottura, che può andare dalla semplice bollitura (appesantita sotto una coltre di maionese) alla confezione con ingredienti e ripieni persino di carne: ebbene, con i carciofi lessi e guarniti con maionese si può stabilire il passaggio dal bianco al rosato, con un primo rosato della serie; sui secondi, l'immissione alla sequela dei rossi. Un altro piatto intermedio che più dei carciofi è subordinato alle possibilità stagionali, è rappresentato dai piselli, che possono servire specialmente al disimpegno con vini rossi, se vengono accompagnati da frittatine o da uova frittellate: allora, si inserisce uno dei "Lagrein", che può essere, oltre che il "dunkel", anche quello senza appellativi distintivi, delle zone più a sud, ossia il "Lagrein" trentino. Similmente per gli sformati.

Ho tentato di enunciare regole generali e regole speciali; ma esse subiscono attenuazioni e modifiche - l'ho pure accennato - a seconda delle esigenze prestabilite dalla programmata successione, dipendentemente dalla gamma dei cibi o da quella dei vini; e in quest'ultimo elemento agisce, a sua volta, il prestabilito punto di arrivo o quello di partenza. Ma Lor Signori avranno inteso come alcune regole siano sempre insopprimibili e, pertanto immancabilmente condizionanti e l'introduzione dei cibi e quella dei vini, componendo sempre un sistema valido.

Da noi, in Italia, dirò che produzione vinicola è talmente assortita - in ogni senso - da riuscire a soddisfare pienamente l'altrettanto variata qualità dei cibi regionali e comuni, che si moltiplica ulteriormente alla considerazione del posto che ciascuno dovrà occupare nella relativa serie in correlazione ai vini: e l'assortimento dei nostri vini è tale e tanto, che può accontentare esaurientemente le pretese dei cibi così considerevolmente aumentate.

Ma, purtroppo, l'Italia è il Paese che non conosce bene i suoi vini!

In questi ultimi tempi, però, grazie all'opera delle Istituzioni, che si sono portate all'efficienza massima, esercitando le loro funzioni con larghezza di vedute e con rigore di metodi - e qui a Siena sono convenute con i loro Esponenti e con Maestri di chiara fama - tutti questi vini cominciano a farsi strada, imponendosi alla conoscenza ed all'attenzione del pubblico: e non soltanto quelli di vastissime produzioni e resi più evidenti per la provenienza da una stessa azienda, ma fino a quelli di zone ristrette, senza intervento di pubblicità, sì bene lentamente affermandosi per le loro doti, che, appunto, noi dobbiamo andare a scoprire, mettendoli alla prova nel dovuto modo e, quindi, diffondendone il gusto e l'uso a cominciare dalle popolazioni locali, e segnalandoli soprattutto alle trattorie del luogo ed a quelle dei paesi vicini. In Italia devono poter emergere ed esercitare il loro peso e funzione i vini "minori", molti dei quali hanno vecchie tradizioni e perciò solida reputazione. Quando parlo di vecchie tradizioni, di vini antichi, non mi voglio riferire al mondo greco-romano e tanto meno indietreggiare ulteriormente nel tempo, perché le notizie di quelle epoche non sono mai sicure: intendo riportarmi al Medioevo, nel quale, per tanti riguardi della vita economica e di quella generale, sono state gettate le basi di una piena modernità. Studiando, per la Toscana, il Catasto del 1427, ho rilevato (fra le stime "al tino", cioè, alla produzione) ben 121 qua-lità di vino, di cui alcune indicate genericamente e 106 - la nettissima maggioranza, dunque, - con agganciamento ad un paese. Perché tutto ciò? Perché un così alto numero di centri produttivi (che, per giunta, si riferiscono ad un territorio assai più ridotto dell'odierna Toscana, non essendo ancora annesse allo Stato fiorentino le attuali province di Siena, Grosseto, Lucca e Massa-Carrara), molti dei quali, preciso, di esigua entità e costituiti da un solo edificio? In queste ultime località vi era una villa di un grande mercante, il quale, se non ambiva all'equiva-lenza produzione-consumo (nel senso di procurarsi direttamente tutto quanto serviva ai suoi bisogni), ambiva a circondarsi delle produzioni dei beni di prima necessità, alle quali voleva dare un'impronta sua personale, così come aveva fatto nei campi di sua principale applicazione, da quello mercantile a quello bancario, da quello industriale a quello dei trasporti e assicurativo. Con il passare del tempo, i luoghi rivelatisi meno adatti vengono abbandonati e scompaiono, pertanto, da quel quadro: si compie nel basso Medioevo - con lo studio cui il mercante si dedi-ca, insieme ai suoi collaboratori, estendendo la sua azione su largo raggio, anche al di là dei suoi poderi - la selezione tra le fonti della produzione e, quindi, dei relativi pro-dotti (che viene completata nella sede del mercato, sul quale, a maggior ragione, agisce il mercante), permanendo soltanto quelli più validi e più caratterizzati, che da allora innanzi saranno sottoposti ad attente cure. E' quello il periodo in cui l'atmosfera rinascimentale influenza tutte le manifestazioni della vita, estrinsecandosi con il rammentato strumento dello studio di tutti i mezzi e di tutti i fenomeni, ed esaltando tutto quanto si appalesa consistente ed efficiente. Con ciò, non intendo circoscrivere a quelle "vecchie" zone vitivinicole gli attributi di superiorità: oggi, con il rinnovato fervore di studio di queste materie e con i ben più raffinati strumenti di studio e di applicazioni pratiche, emergono zone nuove di alto ed originale rendimento, mentre, laddove sono state riconosciute attitudini di remota tradizione, si opera affinché esse siano sfruttate più razionalmente, diffondendovi la vite per raggi sempre maggiori, fino ai limiti di vigoria delle attitudini stesse.

Ebbene, da noi è questo lo sforzo da compiere, o, meglio, lo sforzo in cui l'organizzazione vitivinicola italiana - con i suoi validissimi istituti - si è impegnata, come abbiamo visto nelle espressioni brillanti di ieri: è stato iniziato il sistematico riconoscimento - anche di ordine storico - dei luoghi e dei rispettivi vitigni e vini, di modo che ogni vino, che mano a mano sarà avvicinato al consumatore, venga sempre meglio definito e precisato, allacciandolo al luogo di sua origine. E questa è una base oggettiva, di grande rilevanza. Vi è, poi, un compito, direi, di ordine soggettivo, per il quale dobbiamo ancora adoperarci tutti:

quello di affidare il vino all'uomo, perché più convenientemente lo porti al traguardo del consumo coerente e perfetto: bisogna formare, allo scopo, tutta una categoria di persone, da preporre, se non esclusivamente, almeno con largo impiego, a questo istradamento dei vini verso il consumo: che deve essere un istradamento non soltanto dei vini, ma anche degli uomini, appunto.

Possediamo oggi un repertorio di vini, che, meglio di qualsiasi altro Paese, può soddisfare quella formazione del sistema dell'alimentazione, tanto importante, tanto interessante e tanto delicata. Il vino italiano, in sé e per sé, si è rivelato ed ora si sta valorizzando pienamente, attraverso, fra l'altro, l'affermazione della bottiglia - che da noi un quarto di secolo addietro era quasi sconosciuta - e tutti dobbiamo contribuire a questa valorizzazione, anche nella veste di semplici consumatori, specialmente al ristorante, ribellandoci quando le serie di vini in esso disponibili sono lacunose (almeno negli elementi che, secondo queste modeste regole, sono da ritenersi insopprimibili) e - quando nessuno ci viene meglio in soccorso - con suggerimenti, che prendano le mosse da una nostra scelta del vino, per farvi aderire la pietanza conveniente, e viceversa.

Allora, questo sistema dell'alimentazione, il quale esiste, diventerà effettivo e largamente operante, con notevole incremento dell'efficacia e del rendimento del cibo e del vino.


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